Negli ultimi tempi è fenomeno sempre più diffuso, soprattutto tra giovani e adolescenti, quello di autodiagnosticarsi disturbi mentali prendendo spunto da informazioni reperite online, principalmente nei social TikTok e Instagram.
Vedono dei video che elencano una serie di comportamenti o sintomi tipici di un disturbo psicopatologico, ci si rivedono e concludono di avere anche loro quel disturbo. Magari arrivano anche in prima consultazione dal professionista annunciando di avere una diagnosi ben precisa: ADHD, attacchi di panico, disturbi alimentari, dissociazione, disturbo borderline… sono solo alcuni tra i più gettonati.
Questo fenomeno riflette da un lato la maggiore diffusione di informazioni sulla salute mentale anche da parte di professionisti del settore e il tentativo finalmente di rottura dello stigma che da sempre caratterizza questo tema. Inoltre lo scudo di social come TikTok ha anche fatto sì che sempre più persone si sentissero libere di poter condividere la propria storia di sofferenza, la propria esperienza con problemi psicologici e con soluzioni per ritrovare il benessere.
Dobbiamo tuttavia considerare anche altri aspetti del fenomeno.
Il rischio di semplificare troppo
I format social come Reels, Stories, brevi video e infografiche richiedono un riassunto e semplificazione di argomenti estremamente complessi. L'ipersemplificazione rischia di banalizzare procedure estremamente complesse come quella dell'assessment diagnostico che richiede invece anni di formazione per i professionisti.
Chiunque abbia letto o studiato un classico manuale di psicologia clinica saprà quanto sia facile ritrovarsi a pensare "questo ce l'ho, questo pure…" e a ipotizzare diagnosi sulla base di sintomi che ritroviamo nella nostra esperienza, ma non è la presenza di tratti, comportamenti che troviamo anche in un disturbo a fare la differenza tra salute e patologia.
Non basta spuntare dei segni di presenza/assenza di un comportamento per diagnosticare un disturbo mentale in stile "Se hai questi sette sintomi hai l'ansia sociale". La valutazione clinica è fatta di molto di piú che una checklist.
Non solo, l'algoritmo social fa sì che siamo bombardati di argomenti ripetitivi sulla base di ciò che ha attirato il nostro interesse, delle ricerche che abbiamo fatto. Questo crea il rischio di ritrovarsi in un loop di informazioni che vanno a confermare le nostre ipotesi fino a ritrovarci convinti di rientrare in quella categoria.
Identificarsi con un disturbo
Quando tutto questo succede in un'etá di costruzione di sé stessi e della propria personalità come è l'adolescenza il rischio a cui stiamo giá assistendo è che ci si identifichi con l'etichetta diagnostica e di chiudersi in ragionamenti chiusi del tipo " sono depresso perché ho la depressione".
La depressione diventa un "sono" come se fosse un tratto di personalità. Si rischia di accontentarsi di trovare definizione di sé in un'etichetta superficiale senza scendere a riflettere su quali pensieri, comportamenti, eventi e storie di vita alimentano quella condizione che i clinici chiamano "depressione".
Attenzione, questo non significa che un giovane che cerca risposte su TikTok per uno stato di disagio e magari arriva a riconoscersi in un'etichetta di disturbo non abbia davvero dei problemi. È importante però non soffermarsi a questo livello, quello può essere solo lo spunto per cercare risposte più approfondite e appropriate nei canali preposti.
Le diagnosi sono solo etichette categorie che danno i clinici per comunicare tra loro, organizzare dei segni e disagi ma quello che rappresentano davvero sono vissuti umani nella loro unicità.
Bene parlare di piú di salute mentale, fare psicoeducazione, informare, ma parliamo di persone, vissuti, esperienze, non di categorie da manuale.
Bene informarsi, parlare dei propri problemi mentali senza paura di stigmatizzazione, ma parliamone come esperienze individuali non come omologati che cercano appartenenza in una categoria diagnostica.