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Ventinove anni, anzi quasi trenta, sulla carta d’identità. Una corona di alloro in Educazione affissa al muro e una tesi di laurea in Pedagogia sulla scrivania. Daniel Zaccaro riannoda al contrario il nastro della memoria, raccontando a Wamily la sua adolescenza, tra bullismo, violenze e reati. Dal rapporto burrascoso con il padre, alla prepotenza con i compagni e i professori, fino alle rapine di strada e alla galera.
Fra i presenti nel giorno della sua laurea, sedevano in prima fila don Claudio, il cappellano del Beccaria che con le sue parole ha accompagnato Daniel nel percorso di redenzione, la pm del Tribunale per i Minori che ne aveva sancito la condanna, e perfino Fiorella, l’insegnante in pensione che l’ha istruito nei giorni bui dietro alle sbarre. Quella di Daniel è una storia a lieto fine che insegna a riscrivere a colori un passato a righe bianche e nere.
Com’era il Daniel bambino?
Ero un ragazzino con un sogno spezzato, quello di diventare un calciatore. Giocavo nella squadra di calcio del mio quartiere quando mi acquistò l’Inter. Dopo un anno, sono stato scartato, il mio sogno si è infranto, e col tempo ho accumulato un sacco di frustrazione verso me stesso. Questo è stato l’inizio di tutto.
Alle medie la poca autostima nei miei confronti mi ha indotto a prevaricare sugli altri in modo violento. L’unico modo che conoscevo per relazionarmi con gli altri era quello della forza, del controllo. L’avevo imparato dal mio quartiere (Quarto Oggiaro, ndr) e da mio papà, che aveva un approccio duro con me, si aspettava tante cose. Questa tendenza mi ha accompagnato fino a quando sono arrivato a commettere le rapine.
Come ti comportavi fra i banchi di scuola?
In realtà, la mia aspirazione era diventare un delinquente, non il tipico bullo del liceo. Quello che desideravo era avere il controllo su tutti, sia a scuola, con i compagni e con i professori, che fuori. Gli adulti li vedevo come ostacoli nella mia vita e ogni occasione era buona per provocarli, il che mi faceva apparire antipatico e violento.
Son tutte condotte devianti partite dall’ambiente scolastico, ma che non avevano come unico bersaglio la scuola. Io sognavo di fare i soldi con i reati.
La famiglia ha intercettato i primi segnali del tuo malessere, o se ne è accorta quando ormai era troppo tardi?
Non se ne sono accorti. Non ho avuto una famiglia empatica, o disposta al dialogo. Mio padre era uno di quei tipi “padre padrone”, e mia madre, anche se si prendeva cura di me a livello fisico e materiale, non sapeva capirmi fino in fondo. Poi, si sa che gli adolescenti sono bravi a nascondere queste cose, a meno che non ci sia un adulto in grado di entrare in quelle dinamiche lì.
Il termometro per i genitori sono i risultati scolastici, ma io a scuola andavo bene, e nessuno si è mai preoccupato. Alle medie me la cavavo, alle superiori anche, non sono mai stato bocciato in vita mia, ma è come se avessi questa vita parallela. Era una specie di pellicola in cui ero protetto e non mi vedeva nessuno per come stavo davvero, per quello che volevo fare. Andavo bene a scuola, e non c’era motivo di preoccuparsi.
E a 17 anni è arrivato il carcere…
L’ingresso nel carcere minorile è avvenuto due giorni prima del mio compleanno, il 2 marzo 2010, dopo una serie di rapine e indagini, e lì ho trascorso tre anni della mia vita. Dopodiché, sono entrato in comunità, ma tre mesi dopo essere tornato a casa sono stato di nuovo arrestato e condotto in carcere, a San Vittore, dove sono rimasto sei mesi.
È stato traumatico perché sono stato catapultato in una dimensione che non conoscevo. Immagina un ragazzino abituato a vivere in casa con i genitori e una serie di comfort, all’improvviso essere rinchiuso in galera. Sei costretto a cavartela da solo e diventare grande prima degli altri.
In un carcere di 50 ragazzini io ero una di quelle 50 teste calde, tutte uguali a me. Ho iniziato a fare i conti con coetanei che avevano le mie stesse problematiche e questo mi ha portato più volte allo scontro. La mia tendenza a vedere come nemico qualsiasi adulto si è proiettata verso le guardie e questo mi è costato rapporti disciplinari e trasferimenti nei minorili di Catania, Bologna, Bari.
Qual è stato l’episodio che ti ha convinto a cambiare rotta?
Non esiste un unico episodio, sono tante le cose che succedono, come in ogni tipo di cambiamento. La paura e l’amore sono stati i motivi per cui sono cambiato.
La paura di condurre una vita che non mi avrebbe portato da nessuna parte, la paura di sentirmi solo – con i trasferimenti ho vissuto parecchi momenti di solitudine -, la paura di avere un destino già scritto. Anche se nel male, io sono rimasto un sognatore, aspiravo a un certo tipo di vita e mi accorgevo che la delinquenza mi stava allontanando da quell’obiettivo. Iniziavo a rendermi conto che a 18 anni, l’età più bella, io ero rinchiuso dentro un carcere. Mi chiedevo: «Cosa mi sta succedendo?», «Perché continuo a litigare?».
Poi è arrivato l’amore, l’amore rappresentato dagli incontri con le persone. Ci sono dei volti che mi hanno aiutato durante il percorso.
Per esempio?
Un prete, un educatore, la mia psicologa… fino a don Claudio. Nella vita non ci si salva da soli, quello è un sogno americano. La chiave per un adolescente è trovare persone all’altezza della loro fiducia. Io sognavo qualcuno che mi stesse al fianco, anche se inizialmente ero io il primo a evitare gli adulti, forse perché questo mi obbligava a impegnarmi e compiere dei sacrifici.
Un proverbio buddista dice: «Quando l’allievo è pronto, il maestro appare». Ho dovuto fare il mio pezzo di strada da solo, farmi male, e nel momento in cui finalmente volevo cambiare si sono presentati i maestri, maestri di vita per me. Una volta che sei motivato, allora puoi cambiare. Se non lo vuoi te, rischi di adeguarti a quello che vogliono gli altri.
Ti è capitato di rincontrare le tue “vittime”?
Non ho mai più trovato le vittime dei reati, anche se io ho una memoria abbastanza stronza. Sicuramente mi succede di incontrare persone che in passato ho trattato male. Quando mi vedono e scambiamo due chiacchiere si rendono conto del fatto che sono cambiato, me lo dicono subito e questo serve già a perdonarmi.
Mi ricordo che quando son tornato nel mio quartiere, dopo il carcere, dicevano che avevo una luce diversa negli occhi. Chi ti incontra lo sente, capisce che quell’ex bullo ha cambiato livello.
Oggi sei un educatore e ti stai laureando in Pedagogia. La perfetta antitesi del bullo…
È stato un talento che mi hanno riconosciuto gli altri. Dopo un po’ che ero recluso al Beccaria, essendo il più vecchio là dentro, ho iniziato a essere protettivo con i miei compagni, anziché prepotente. Gli educatori del carcere mi dicevano: «Daniel prenditi cura di questo ragazzo», «Ti metto in cella questo perché a rischio», e vedevano che i ragazzini mi ascoltavano, con me funzionava. In più io stavo bene, perché mettendomi a servizio degli altri sentivo di arricchire me stesso.
E poi, nella nostra vita c’è sempre quella persona di ispirazione che ti affascina, che ti spinge a dire “Vorrei essere come lei”. Avendo conosciuto don Claudio, l’insegnante Fiorella, la mia psicologa, mi son detto: «È questo il mestiere che voglio fare da grande». È anche un modo per ringraziarli, restituendo qualcosa indietro.

Cosa consiglieresti a un giovane bullo?
A me non piacciono molto gli slogan, perché le relazioni sono talmente uniche, irripetibili, originali. Quello che potrei consigliare è di fidarsi, trovare un adulto che sia d’ispirazione e metta il giovane nella condizione di essere se stesso e di scoprire il proprio talento.
Tu sei stato più carnefice, o più vittima?
Sono etichette. Quelli che devono fare più paura non sono né i cattivi né la vittima, ma sono gli indifferenti, perché sono quelli che fanno molto più male di tutti. I primi due sono personaggi specifici, con ruoli precisi e su di loro ci puoi lavorare. Gli indifferenti, invece, stanno nell’invisibilità, non si fanno vedere, non esprimono un giudizio, non prendono posizioni, sono i più pericolosi, possono stare da una parte o dall’altra.
Se a scuola la classe fosse unita, prendendo all’unanimità posizione sulle cose, si sconfiggerebbe in un attimo il bullismo. Ciò che manca nel mondo di oggi è la comunità, la solidarietà, il fatto di aiutarsi l’un l’altro, di prendersi delle responsabilità.
Come ricordi il tuo passato? Con disprezzo, con rammarico, o ti sei perdonato?
Il mio passato non è stato una sentenza, ma una lezione per me.