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27 Settembre 2023
15:00

Perché a scuola non si parla quasi mai di adozione?

A scuola non si parla quasi mai di adozione per paura di utilizzare parole sbagliate, perché è considerata qualcosa di distante o difficile da definire o perché nessuno di quegli scolari è stato adottato. Ma affrontare l’argomento in classe è più importante di quanto si immagini, perché parlare di adozione significa parlare di diversità, inclusività e multiculturalità.

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Perché a scuola non si parla quasi mai di adozione?
Intervista a Dott.ssa Francesca Carioni
Referente per la scuola di Italia Adozioni
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A scuola non si parla quasi mai di adozione. Un po’ per paura di usare parole sbagliate o inopportune, un po’ perché è ritenuto un qualcosa di distante o di difficile da definire, un po’ perché, semplicemente, nessuno degli scolari di quell’annata è stato adottato. E allora lo si archivia, insieme al resto del programma ministeriale che non si riesce mai a ultimare prima dell’ultima campanella di giugno.

Eppure, secondo quanto riporta il Ministero della Giustizia, in Italia sono quasi 30mila i minori italiani e stranieri adottati in dieci anni (2011-2021), tanti dei quali oggi siedono sui banchi degli istituti scolastici, scontrandosi con una realtà che non conosce l’adozione e che ha difficoltà ad approcciarsi con chi trasporta sulle spalle un vissuto di abbandono.

30mila storie diverse, accomunate dalla separazione dai genitori biologici e, a volte, da lunghi periodi trascorsi in istituti e orfanotrofi e da esperienze di maltrattamenti fisici e psicologici. Tra loro c’è anche chi è stato adottato dopo un affido o dopo un’adozione non riuscita, c’è chi è arrivato da un Paese lontano senza sapere la lingua o senza aver mai indossato un giubbotto pesante, c’è chi si è ritrovato immerso in un ambiente totalmente diverso da quello a cui era abituato.

Ma anche laddove un docente non si ritrovi mai a insegnare in una classe con uno o più ragazzini adottati, quelle spese a spiegare che cos’è l’adozione in classe non saranno mai parole sprecate. Perché parlare di adozione significa parlare di diversità, di inclusività, di multiculturalità, temi che riguardano chiunque da vicino.

Da che età spiegare l’adozione ai piccoli e quali strumenti adottare senza scadere nella banalità? Perché è utile spendere del tempo in classe a raccontare dei figli “di pancia” e “di cuore” anche se nessuno degli scolari in aula è stato adottato? Le Linee Guida per il diritto allo studio dei bambini adottati nelle scuole, recentemente aggiornate dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditata, vengono effettivamente rispettate nelle scuole? Sono le domande a cui Wamily ha cercato di rispondere con Francesca Carioni, referente per la scuola di Italia Adozioni.

Da che età parlare di adozione a scuola?

Non è mai troppo presto per parlare di adozione. Conviene iniziare ad affrontare l’argomento dalla tenera età, a partire dai 3 anni, quando i piccoli stringono le prime amicizie alla scuola dell’infanzia.

«Parlare di adozione non significa parlare di qualcosa di lontano, difficile, o pesante. Significa, invece, affrontare tematiche trasversali, quali l’accoglienza, la valorizzazione delle reciproche diversità, l’inclusione e la multiculturalità, valori che interessanti tutti e che dovrebbero caratterizzare il quotidiano delle nostre attività scolastiche» ha spiegato la dott.ssa Carioni, referente per la scuola di Italia Adozioni, l’associazione che da otto anni organizza il concorso annuale “L’adozione fra i banchi di scuola”. Il progetto dal 2014 ad oggi ha coinvolto oltre 11mila studenti italiani nella fascia d’età 3-19 anni per promuovere la cultura dell’adozione dalla scuola dell’infanzia fino al Liceo.

Come spiegare l’adozione ai bambini

Si comincia alla scuola dell’infanzia utilizzando dei mediatori didattici, come gli albi illustrati, cioè libriccini con poche e semplici parole, arricchiti da illustrazioni curate e comunicative. Esiste una bibliografia cospicua dedicata alla letteratura per l’infanzia su adozione e affido, divisa per fasce d’età.

«Una volta introdotto l’argomento, – continua Carioni – è fondamentale che l’insegnante sappia accogliere tutte le domande dei bambini rispondendo con semplicità ed eventualmente prendendo tempo nel caso in cui non si conosca la risposta più corretta, rimandando alla lezione successiva, ma mai negando una risposta».

Tra le proposte di Italia Adozioni, sono inclusi volumi che hanno per protagonisti simpatici coniglietti che scoprono di essere stati adottati da mucche e cavalli e pagine commoventi che spiegano che il posto giusto dove vivere è quello dove amiamo stare.

«Può essere un argomento che scaturisce naturalmente da una lettura del libro di testo o dall’esperienza più o meno diretta di un alunno – continua –. A scuola si parla davvero di tutto, basta trovare le parole corrette per farlo. Di fondamentale importanza è la disponibilità del docente nell’affrontare la tematica senza banalizzarla o viverla come un tabù».

Le difficoltà in classe

Le storie di adozione sono diverse, come diversi sono i percorsi di apprendimento dei singoli studenti, i loro vissuti emotivi, l’ambiente da cui partono e in cui arrivano. Esistono, tuttavia, delle potenziali criticità, valide per qualsiasi ragazzino adottato, che toccano tre ambiti della scuola: lingua, amicizie, burocrazia.

Amicizie

«Nell’area della socializzazione – spiega la dott.ssa Carioni – non si può sottovalutare che le esperienze sfavorevoli vissute nel periodo precedente l’adozione, ad esempio, possono determinare difficoltà nella gestione delle emozioni».

Lingua

«I bambini adottati internazionalmente imparano presto la nostra lingua, – continua – ma l’italiano della quotidianità è diverso dalla lingua dello studio, che richiede proprietà di linguaggio, astrazione e termini specifici. Per loro la lingua italiana è L2, ovvero lingua appresa in un secondo momento rispetto alla lingua madre. Il rafforzamento della padronanza linguistica è pertanto fondamentale e, come indicato dalle Linee di indirizzo ministeriali, va portato avanti non solo all’inizio, ma anche nelle fasi più avanzate del percorso scolastico».

Burocrazia

«La burocrazia per l’iscrizione richiede una grande attenzione alla privacy. Pensiamo ad esempio all’adozione nazionale che può prevedere fasi intermedie in cui i bambini sono inseriti in famiglia in “collocamento provvisorio” con ancora i dati anagrafici originari. Per necessità di riservatezza, ad esempio, è opportuno scegliere l’iscrizione presso la segreteria, e non con procedura online, generando un codice fiscale provvisorio che ne tuteli la privacy».

No al pietismo, sì a una corretta cultura dell’adozione

È importante non solo parlare di adozione, ma anche farlo in maniera corretta, senza lasciare spazio a luoghi comuni, pregiudizi o stereotipi.

«Occorre aiutare a comprendere come l’adozione sia semplicemente un percorso differente per creare una famiglia – risponde Carioni –. Non è un’opera di bene o un atto di carità, ma un cammino che porta all’incontro fra genitori e figli».

«Nella società inoltre si utilizza il termine adozione in modo talvolta davvero inappropriato, si parla di adozione a distanza o si propone l’adozione di qualsiasi cosa, dall’aiuola del parco al panda in via d’estinzione, ma l’adozione è un’altra cosa – continua –. L’utilizzo dei termini in maniera corretta è parte dell’idea di adozione che matura in noi».

«È fondamentale che gli insegnanti, per primi, si soffermino a riflettere sulla propria concezione dell’adozione e sappiano sviluppare un atteggiamento maggiormente critico nei confronti dei più diffusi luoghi comuni su questa tematica. I figli adottivi si trovano a vivere in una società nella quale è carente la cultura dell’adozione. È importante che la scuola, e quindi in primo luogo gli insegnanti, sappiano educarsi ed educare le nuove generazioni a leggere questa realtà andando al di là degli stereotipi e dei pregiudizi».

Gli insegnanti sono preparati sull'adozione?

Nonostante in dieci anni, dal 2011 al 2021, siano state oltre 10.300 le adozioni nazionali e più di 18mila quelle internazionali in Italia, è difficile sentirne parlare in classe, salvo che uno degli studenti in aula non porti su di sé le cicatrici di una storia di abbandono.

A volte, gli stessi insegnanti sono poco formati a riguardo. Eppure esistono delle Linee guida per favorire il diritto allo studio degli studenti adottati pubblicate nella loro prima versione nel 2014 e finalmente aggiornate nel 2023, a nove anni di distanza, dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara per risolvere le criticità emerse negli anni. Nelle direttive ministeriali, vengono, per esempio, suggeriti ai docenti i tempi di inserimento del piccolo (che variano a seconda delle sue esigenze) e le strategie per favorire l’accoglienza e l’inclusione del nuovo arrivato, puntando su un’alfabetizzazione emotiva del piccolo, creando rituali fissi, evitando di lasciarlo solo.

«Ad oggi, nonostante un documento ministeriale che punta a favorirne il diritto allo studio ed evidenzia alcuni punti chiave e potenziali criticità, la scuola appare generalmente poco formata a riguardo».

«L’aggiornamento delle linee guida – commenta la dott.ssa Carioni – ha prodotto un documento rinnovato nei termini e arricchito nei contenuti. Viene dato, ad esempio, maggiore spazio all’adozione nazionale e sono esplicitati i punti di attenzione dedicati alla scuola dell’infanzia. Nuovi allegati aiutano i docenti a costruire l’inserimento scolastico più adeguato per ciascun percorso e ad avviare una costruttiva alleanza scuola-famiglia. Non avendo carattere prescrittivo, le indicazioni contenute nel documento in passato sono state spesso disattese. A livello nazionale ci sono aree territoriali nelle quali tutte le scuole hanno individuato e formato un docente referente per l’adozione ed altre realtà nel quale il documento è completamente sconosciuto. Non possiamo che augurarci che, con il recente aggiornamento, le Linee godano di un nuovo slancio che le porti realmente negli istituti scolastici di tutta Italia».

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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