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29 Settembre 2023
15:00

Aiutare i figli a fare i compiti è controproducente. Il pedagogista: «Attenzione a non sostituirsi a loro»

Aiutare o non aiutare il figlio con i compiti? Un conto è tendere la mano di tanto in tanto, un altro è sostituirsi al bimbo nel portare a termine le assegnazioni scolastiche. Il momento dei compiti potrebbe creare tensione in casa. «Aiutare significa aggiungere un pezzo, e non essere la mente ausiliaria del figlio, che rischia di assorbire l’atteggiamento frustrato e frustrante del genitore».

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Aiutare i figli a fare i compiti è controproducente. Il pedagogista: «Attenzione a non sostituirsi a loro»
In collaborazione con il Dott. Luca Frusciello
Pedagogista
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«Che incubo, i compiti». Se il piccolo ha un rapporto burrascoso con lo studio in autonomia a casa, il carico – emotivo e di lavoro – a volte ricade anche sui genitori, generando caos e malumori tra le mura domestiche. Ma fino a che punto è giusto aiutare il pargolo a fare i compiti?

La scienza si è interrogata sul tema e ha risposto che aiutare troppo i figli a fare i compiti nuoce al loro sviluppo. Noi lo abbiamo chiesto anche al pedagogista del Comitato Socio-Scientifico di Wamily, Luca Frusciello, che risponde: «La domanda giusta non è se è giusto o sbagliato aiutare un bambino a fare i compiti, ma qual è l’obiettivo per cui lo aiutiamo».

Cosa dice la scienza

Un recente studio delle Università della Finlandia orientale e di Jyväskylä ha evidenziato come un aiuto eccessivo dei genitori ai figli con i compiti si riveli, in realtà, controproducente e, anzi, dannoso per il loro sviluppo. Nello studio è stato preso in esame un campione di bambini della primaria, ed è emerso che più le mamme lasciavano i figli liberi di studiare da soli a casa, più i piccoli diventavano tenaci nel raggiungere il risultato.

«Una possibile spiegazione è legata al fatto che quando la madre dà al bambino l’opportunità di fare i compiti autonomamente, la mamma invia anche un messaggio a dimostrazione che crede nelle sue capacità» ha spiegato Jaana Viljaranta, docente dell'Università della Finlandia orientale. Al contrario, la mano perennemente tesa al piccolo nell’attività didattica a casa, rischia di essere interpretata come una dimostrazione di scarsa fiducia nelle sue capacità. Un meccanismo che si riflette, di conseguenza, in risultati al di sotto delle potenzialità.

Il parere del pedagogista

La domanda non è se è giusto o no aiutare un figlio con i compiti. Il genitore dovrebbe chiedersi innanzitutto qual è il motivo per cui si sente chiamato ad aiutarlo. «Qual è l’obiettivo? – commenta il pedagogista Luca Frusciello – Aiuto il bimbo perché se no non li fa? O perché se no non ce la fa? Capire qual è la finalità dell’aiuto fa una grande differenza».

Non si dedica allo studio in autonomia perché non è motivato? Non ha voglia? È frustrato all’idea di fare i compiti? È stanco? O, forse, non ha compreso l’argomento? Il piccolo ha il capo chino sui libri. Piange, si arrabbia, chiede aiuto. Il genitore, infastidito o impietosito, si avvicina, si siede al suo fianco, e inizia a scartabellare libri e quaderni, in quel marasma di fogli e penne colorate. Da quel ginepraio di consegne malamente scritte sul diario e messaggi di Whatsapp sul gruppo di classe che creano confusione, non se ne esce.

Il bimbo diventa ingestibile, sbuffa, si alza, si butta per terra, gioca con il righello. Nella stanza cresce la tensione, e il genitore finisce per alterarsi a sua volta. «Aiutare non deve diventare la situazione frustrante e stressante che i genitori descrivono, in cui stanno fino alle 7 di sera a fare i compiti, e mentre li fanno sono più frustrati dei figli e inveiscono contro gli insegnanti. – continua il pedagogista – In situazioni di questo tipo il bimbo assorbe l’atteggiamento frustrato e frustrante del genitore che lo aiuta e, dunque, non riesce a fare i compiti da solo».

Allora, cosa significa aiutare? «Il compito da aiutante è, invece, aggiungere un pezzettino affinché lui lo faccia da solo – continua il dott. Frusciello – non significa sostituirsi a lui, o essere la sua mente ausiliaria. Il concetto dell’aiuto non equivale a quello di “mi sostituisco a te”, anzi, quest’ ultimo presuppone altri concetti pericolosi del tipo: “non mi fido di te”, “non mi fido del fatto che tu ce la faccia”».

E se il genitore aiuta il figlio pensando che da solo non sia in grado di portarli a termine? «Possiamo dirlo con certezza che non ce la fa? – commenta il pedagogista – Il carico di studio è troppo elevato? C’è una materia in cui fa più fatica? Ha disturbi dell’apprendimento per cui va inserito in un contesto d’aiuto di altro tipo?».

«E poi, cosa vuol dire farcela? – prosegue – Non significa finire i compiti tutti giusti, precisi, puntuali e prendersi il “bravo” dalla maestra. Farcela significa essersi impegnati, aver capito cosa non si è capito e, quindi, cosa si può chiedere all’insegnante. Ecco come si deve aiutare: aiutando a capire in cosa non ce la si fa, per chiederlo al docente. Il resto non è aiutare, anzi, è sovraccaricare, pensando di scaricare».

Aiutare non è sbagliato. Anzi, l’aiutare è un bene, quando è qualcosa che aggiunge e non toglie. Quando è qualcosa che migliora, e non peggiora. Il nodo si crea quando l’aiuto diventa una scialuppa di salvataggio, senza la quale il piccolo viene lasciato annegare. All’origine della difficoltà a concentrarsi o a eseguire un’assegnazione a casa, potrebbero esserci svariati “perché” diversi. È essenziale indagarli, prima di arrivare a una sentenza che potrebbe compromettere la sua autonomia.

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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