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25 Marzo 2023
10:00

È vero che i compiti a casa sono troppi? I consigli del pedagogista

I compiti a casa sono davvero troppi? O le lamentele sulla quantità di assegnazioni da svolgere dopo scuola sono esagerate? Da anni il dilemma fra compiti sì e compiti no anima il dibattito pubblico. Tutto dipende da che cosa intendiamo per "compito". Ne abbiamo parlato con il pedagogista Luca Frusciello.

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È vero che i compiti a casa sono troppi? I consigli del pedagogista
In collaborazione con il Dott. Luca Frusciello
Pedagogista
compiti

I compiti a casa sono stressanti? Negli ultimi giorni un video in cui una mamma palermitana si sfoga con toni coloriti per la quantità di compiti richiesta al figlio è diventato virale su TikTok, riaccendendo le polemiche: la mole di compiti assegnati in classe è eccessiva? Secondo l'indagine OCSE (2014), l’Italia è seconda fra i Paesi OCSE per numero di ore che gli studenti dedicano allo studio dopo la scuola, un risultato che purtroppo non si traduce in un’istruzione ineccepibile: nonostante in Italia gli scolari trascorrano su libri e quaderni una media di più di 8 ore al giorno, il suo sistema scolastico non è in testa alle classifiche. Tuttavia, i compiti sono un’essenziale prova di autonomia e una fondamentale palestra di vita per i più piccoli che li aiutano a imparare e a crescere. Abbiamo chiesto qualche consiglio su come affrontarli al pedagogista del Comitato socio-scientifico di Wamily, Luca Frusciello.

Che cosa sono i compiti

Il compito per definizione è quello strumento utile all’alunno per consolidare le competenze e le nozioni apprese in classe e per coinvolgerlo nella vita scolastica. Ma la sua funzione, specialmente durante l’infanzia e la prima adolescenza, non è unicamente quella dell’assimilazione di concetti ed argomenti. Anzi, i compiti sono prima di tutto un esercizio di indipendenza e autonomia.

Il compito è innanzitutto una palestra di vita

«A volte il concetto del compito è travisato – ci spiega il pedagogista Luca Frusciello – dipende se lo intendiamo solo come un modo per approfondire o potenziare quello che è stato fatto a scuola oppure anche come una palestra di vita, esattamente come la scuola. Se lo concepiamo come una palestra, allora il compito rappresenta una prova d’autonoma di quello che viene fatto a scuola».

Compiti sì o compiti no?

«Voglio sapere dai maestri se è normale che mio figlio si svegli alle 6 e mezza del mattino e si ritrovi al pomeriggio con tre, quattro compiti da fare, senza poter fare uno sport, né niente!». Sono le parole di una mamma palermitana in un video pubblicato nei giorni scorsi sul suo account TikTok che in poche ore è diventato virale. Alle sue spalle, il figlio piange a dirotto, seduto a tavola con il capo chino sui quaderni.

Quella della protagonista del filmato (che in seguito si è scusata con la categoria degli insegnanti) non è una lamentela isolata. Nel 2017 in Italia è nato addirittura un movimento contro i compiti a casa. Si chiama “Basta compiti!” e il suo promotore, Maurizio Parodi, un dirigente scolastico di Genova, nel novembre 2021 ha spedito una lettera all’allora Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, per chiedere un’udienza e sollecitare una regolamentazione dell’«assegnazione dei compiti a casa».

In realtà, il dibattito si era già acceso fra gli scranni della politica tre anni prima, nel 2018, quando chi ricopriva la carica di Ministro dell’Istruzione era Marco Bussetti, che di propria iniziativa aveva indirizzato al corpo docenti un messaggio inusuale, che li invitava a concedere «un momento di riposo degli studenti e delle famiglie» dai compiti nel periodo delle vacanze natalizie.

Nel nostro Paese abbiamo una legge che tutela e difende il diritto dei piccoli di dedicarsi ad attività ricreative, oltre a quelle scolastiche. Nella legge con cui il 27 maggio 1991 l’Italia ha ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza è incluso un articolo che recita:

Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al  riposo ed al tempo libero, di dedicarsi al  gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e di partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica (Art. 31, L. 176/91).

Un dilemma, quello fra compiti sì o compiti no, che anima perfino il dibattito internazionale: già nel 2009 il New York Times si era interrogato sulla questione, chiedendo a una folta schiera di esperti il loro parere.

Probabilmente, non si arriverà mai all’unanimità nell’accogliere con piacere o sconforto i compiti assegnati in classe e magari in programma per le vacanze estive o per il weekend. La differenza sta nella prospettiva con cui si guardano i compiti, che, prima di tutto, sono un momento di crescita per i pargoli.

I consigli del pedagogista

Iniziamo a immaginare il compito a casa non più come un obbligo noioso e meccanico, finalizzato esclusivamente al voto positivo in pagella, bensì come una prova di autonomia, in cui il piccolo è libero di sperimentare, autoregolarsi, cimentarsi in qualcosa fino a dove le sue capacità glielo consentono, senza inutili ansie e pressioni esterne.

Sperimentare fin dove si riesce, e non fin dove il compito vuole

«Se è una prova d’autonomia – continua il dott. Frusciello – è una prova in cui è fondamentale che il bambino sperimenti fin dove può e fin dove riesce, non fin dove il compito vuole».

Nostro figlio non ha portato a termine il compito, nonostante si sia sforzato? Non è un dramma! Il compito a casa è affare degli scolari, non dei genitori, e funziona come una palestra di vita per loro.

È meglio lasciare il bambino da solo a fare i compiti

«Ricordiamoci che il compito è un esercizio e una prova d’autonomia per il bambino, non per il genitore – chiarisce il pedagogista – la figura del genitore-insegnante a casa a volte si rivela controproducente, perciò tendo a suggerire ai genitori di andarsene e lasciare il figlio a fare i compiti da solo. Anche il momento di frustrazione del bambino, se si presenta, è un momento di autonomia, che il piccolo imparerà a gestire: se decide di farsi prendere dello sconforto, potrebbe succedere perché ha al suo fianco qualcuno che gli permette di farsi prendere dallo sconforto e di delegare al genitore il suo personale senso di frustrazione».

Oltre che lasciare il piccolo libero di sperimentare, potrebbe essere utile chiedere un colloquio con l’insegnante.

«Parlando con gli insegnanti e chiedendo loro qual è la ragione per cui danno i compiti, magari i genitori scoprono che i maestri li assegnano proprio perché i compiti sono una palestra di vita. I genitori, invece, tendono, comprensibilmente, a farsi prendere dal senso di colpa nel mandare il figlio a scuola senza compiti, un sentimento che nasce da un senso di inadeguatezza dell’adulto, come se il prendersi cura del figlio consistesse nel non mandarlo a scuola senza compiti. Il colloquio con l’insegnante è essenziale».

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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