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22 Settembre 2023
17:00

L’aborto farmacologico in Italia viene ancora ostacolato: funziona solo in 3 Regioni su 20

Abortire in Italia è complicato, tra medici obiettori di coscienza, carenza di consultori e politiche regionali diverse. Lo è ancora di più se si desidera procedere con un aborto farmacologico, tramite l’assunzione di due pillole.

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L’aborto farmacologico in Italia viene ancora ostacolato: funziona solo in 3 Regioni su 20
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La pratica abortiva in Italia è obsoleta. No, l’Italia non è un Paese “vecchio” soltanto perché abitato più da over 65 che da neonati, teenager e giovani adulti, con un indice di vecchiaia che nel 2022 ha toccato quota 187,6 anziani ogni 100 giovani. È un Paese vecchio anche dal punto di vista delle leggi, tante delle quali o sono assenti, o sono inattuali. È il caso della famosa Legge 194, la tanto discussa legge sull’aborto, che essendo stata emanata nel 1978, cioè quarantacinque anni fa, meriterebbe una rinfrescata.

La norma, tra le altre carenze, non menziona la pratica dell’aborto farmacologico perché all’epoca, negli anni Settanta, la pillola abortiva non era ancora stata rilasciata. Da quando fu introdotta, l’interruzione volontaria di gravidanza tramite l’assunzione della pillola abortiva Ru 486 ha preso gradualmente piede in Europa, diventando il primo metodo di aborto volontario in diversi Paesi europei perché ritenuto poco invasivo e sicuro, ma non in Italia, dove continua a essere praticato più l’aborto chirurgico di quello farmacologico.

Sì, perché se in Francia la pillola abortiva è stata introdotta nel 1988, in Italia è arrivata solo nel 2009 e ad oggi, nel 2023, solo tre Regioni del Belpaese applicano l’aborto farmacologico nel rispetto delle nuove linee di indirizzo. Al di fuori di Lazio, Emilia-Romagna e Toscana le donne che vogliono interrompere la gravidanza sono costrette a macinare chilometri per raggiungere più volte in pochi giorni l’ospedale più vicino a loro che distribuisca la pillola, o a rimanerci in regime di ricovero. A mettere in luce la drammatica situazione, che in tanti casi costringe le donne a gettare la spugna e – se non ci si scontra contro il muro dell’obiezione di coscienza – a sottoporsi a un intervento chirurgico per abortire, è il rapporto di Medici del Mondo (MnM), organizzazione umanitaria medico sanitaria fondata nel 1980.

Toscana, Lazio, Emilia-Romagna: 3 mosche bianche tra 17 pecore nere

In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è una prestazione compresa nei LEA, cioè nella lista di prestazioni e servizi essenziali coperti dal Servizio sanitario nazionale. Eppure, ad oggi l’aborto è una pratica ancora fortemente osteggiata. Quello farmacologico, poi, è ancora più ostacolato dell’aborto chirurgico.

Nell’agosto 2020 il Ministero della Salute, sotto la guida dell’ex ministro Roberto Speranza, aveva pubblicato l’aggiornamento delle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”, che prevedono:

  • L’aborto tramite l’assunzione di farmaci fino alla nona settimana (prima erano sette)
  • L’abolizione della prescrizione del ricovero (prima era obbligatorio essere ricoverate almeno tre giorni in ospedale)
  • La somministrazione delle pillole in ambulatori e consultori familiari riconosciuti, con un conseguente ampliamento del numero di ginecologi che possono somministrare la pillola (prima lo potevano fare solo i medici ospedalieri)

Tuttavia, da allora solo tre Regioni su venti le hanno applicate: Lazio, Emilia-Romagna e Toscana. Le restanti Regioni non le hanno recepite, mentre Piemonte, Umbria e Marche, a guida centrodestra, hanno deliberatamente deciso di non attuarle.

«Le nuove linee di indirizzo sono rimaste una buona teoria. Il ministero della Salute ha chiesto alle Regioni di applicarle, ma se non lo fanno non succede nulla» ha affermato la dott.ssa Marina Toschi, ginecologa parte di Pro-Choice, Rete italiana contraccezione aborto, come riporta il rapporto di Medici del Mondo.

Le nuove linee di indirizzo, peraltro, non solo tentano di avvicinare l’uso della pillola abortiva agli standard medici riconosciuti a livello internazionale, ma sono anche un modo per ridurre l’impatto dell’obiezione di coscienza sull’accesso alle interruzioni volontarie di gravidanza.

Perché in Italia l’IVG viene ancora ostacolata?

Quali sono i motivi? Alla radice del ritardo e della ritrosia del nostro Paese nel garantire ovunque l’accesso all’aborto farmacologico e, più in generale, nel garantire l’IVG, quando è richiesta, coesistono più fattori. Uno di questi è senza dubbio la quantità spropositata di  medici obiettori di coscienza. Secondo il Ministero della Salute, in Italia nel 2020 si è dichiarato obiettore il 64,6% dei ginecologi, il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico, con picchi che superano l’80% a Bolzano, in Abruzzo, Molise e Sicilia. In pratica, due ginecologi su tre sono obiettori di coscienza. La situazione peggiora ulteriormente se si circoscrive il fenomeno alle singole strutture: nel Belpaese in 22 ospedali la percentuale di obiettori di coscienza tra il personale sanitario è del 100%, come riporta la ricerca Mai dati scritta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove per l'Associazione Luca Coscioni.

Due ginecologi su tre sono obiettori di coscienza

Altri zoccoli duri, che rendono difficoltosa un’applicazione capillare dell’interruzione volontaria di gravidanza, sono la bassa disponibilità di consultori sul territorio e la diversa organizzazione dei sistemi sanitari regionali. «Il percorso dell’aborto farmacologico fatto come lo facciamo noi in Italia diventa quasi più complicato di quello per l’intervento chirurgico – ha dichiarato la dottoressa Toschi – . Le donne devono riuscire a trovare l’ospedale che lo fa, che magari è a 100 chilometri da casa, e devono prendere la macchina o i mezzi quattro volte per andarci: per l’accettazione, per la prima pillola, poi per la seconda e infine per assicurarsi che sia tutto a posto. A quel punto lasciano perdere e vanno all’ospedale più vicino a fare l’intervento».

Come funziona l’aborto farmacologico?

L’aborto farmacologico prevede l’assunzione di due farmaci sotto forma di pillole, da assumere a 48 ore di distanza l’una dall’altra:

  1. il mifepristone (Ru 486), che spegne la vitalità dell’embrione
  2. la prostaglandina, che ne determina l’espulsione

Si tratta di una pratica meno invasiva rispetto all’aborto chirurgico e che richiede meno risorse rispetto a un intervento.

Ad oggi nel più delle Regioni italiane le donne sono costrette ad ingerire la pillola abortiva in ospedale, rimanendo ricoverate almeno tre giorni o dovendo raggiungendo la struttura ospedaliera minimo tre volte (la prima e la seconda per assumere le due pillole, la terza per un controllo). Un viaggio complicato se l’ospedale più vicino che pratica l'aborto farmacologico sorge a centinaia di chilometri di distanza.

Diverso è il caso di Emilia-Romagna, Toscana e L’azione, che, applicando le nuove linee guida di Speranza, consentono alle pazienti di ingerire i farmaci in ambulatori extra-ospedalieri e nei consultori o, solo nel Lazio e solo per l'assunzione della seconda pillola, direttamente a casa.

Le informazioni fornite su www.wamily.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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