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10 Ottobre 2023
11:00

Adolescenti hikikomori in aumento in Italia. L’esperta: “I genitori iperprotettivi sono parte del problema”

Il fenomeno degli Hikikomori, gli adolescenti e i giovani adulti tra gli 11 e i 24 anni che scelgono di vivere isolati nelle loro stanze, è in sensibile aumento. Generalmente sono di sesso maschile, amano la tecnologia e i videogiochi e preferiscono gli amici virtuali a quelli reali. Mamme chioccia e genitori iperprotettivi sono parte del problema.

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Adolescenti hikikomori in aumento in Italia. L’esperta: “I genitori iperprotettivi sono parte del problema”
Intervista a Dott.ssa Valentina Di Liberto
Sociologa e Presidente della Cooperativa sociale Onlus Hikikomori di Milano
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Se sbirciamo dallo spioncino della porta della sua cameretta, lo noteremo con le cuffie posizionate sulle orecchie, le mani sul joystick, il volto illuminato dalla luce blu dello schermo digitale. Il telefono vibra mentre gli arriva una notifica dietro l’altra, non più di Luca che gli chiede di uscire per un gelato, ma di richieste di gioco. La vita di un Hikikomori non scorre, si ripete, uguale, incagliata in quelle quattro pareti, come un nastro musicale inceppato su una nota. Quello che è fuori dal perimetro della stanza non gli interessa perché si sente più stretto in una piazza che dentro casa. Come lui, in Italia vivono, intrappolati in un ritiro dalla società, oltre 54mila adolescenti di età compresa fra i 15 e i 19 anni, secondo una stima dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. È un fenomeno in crescita, che dopo la pandemia ha subito un’impennata. «Le richieste di aiuto sono aumentate del 20-25% rispetto al periodo pre-Covid» spiega a Wamily la dott.ssa Valentina Di Liberto, sociologa e presidente della Cooperativa sociale Onlus Hikikomori di Milano, che dal 2012 è attiva sul territorio per rispondere alle richieste di intervento «in una società che da quando è entrata nell’era digitale è in continua trasformazione, come lo sono i disagi delle persone».

Identikit di un Hikikomori

Da almeno sei mesi hanno scelto volontariamente di autorecludersi e isolarsi, come dei piccoli Robinson Crusoe che si ritrovano a naufragare nella solitudine della loro stanza. Hanno tra gli 11 e i 24 anni (con picchi tra i 13 e i 16 e tra i 18 e i 24 anni), tendenzialmente sono di sesso maschile, amano la tecnologia e i videogiochi, a volte pure anime e manga, e sono ipersensibili. «I campanelli d’allarme sono quando iniziano a concentrare le loro energie nella vita virtuale, anziché in quella reale, quando rinunciano all’attività sportiva e a uscire con gli amici, quando iniziano a mostrarsi ombrosi, senza spiegare il motivo, ad andare a dormire tardi, a non voler più andare a scuola. In base alla nostra esperienza clinica, tanti degli adolescenti presentano un quadro di ipersensibilità» commenta la dott. Di Liberto.

Un lavoro di ricerca condotto nel 2019 dall’Università Bicocca di Milano, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Child Development, ha trovato un’associazione tra ipersensibilità e ritiro sociale, testando un campione di pazienti di cinque strutture lombarde, tra cui la Cooperativa Hikikomori di Milano. «Quello dell’ipersensibilità è un dato oggettivo, suffragato dalla ricerca, che ci ha fornito delle indicazioni su come intervenire per aiutare questi ragazzi, particolarmente difficili da coinvolgere – continua la sociologa – . Insieme a loro, va presa in carico l’intera famiglia, perché il ritiro sociale è il risultato di più componenti, familiari e scolastiche, che interagiscono tra loro».

Difficoltà in famiglia, bullismo, aspettative sociali, tendenza dei teenagers all’omologazione, condizionamento attraverso i social network, sono fattori che favoriscono il ritiro sociale. «Sono adolescenti “nerd”, che vanno contro i modelli sociali, non li accettano, non si adattano – chiarisce l’esperta – generalmente sviluppano fobie e ansia sociale, che impediscono loro di affrontare la vita sociale, la scuola, le relazioni, la folla, si sentono inadeguati, hanno difficoltà a confrontarsi con l’altro e a tollerare il giudizio, perciò si nascondono, si isolano, non vogliono esporsi».

Esplosione del fenomeno Hikikomori e Covid-19

Il termine “Hikikomori”, diventato noto nel 1998 grazie allo psichiatra giapponese Saito Tamaki, è entrato nelle case delle famiglie italiane con la pandemia. È come se solo con il virus e, quindi, la quarantena, l’isolamento, il coprifuoco, la Didattica a Distanza, le lezioni da remoto, il mondo avesse aperto gli occhi sul fenomeno e si fosse accorto dell’esistenza degli Hikikomori, individuandoli come “vittime sacrificali” dell’emergenza sanitaria e delle sue restrizioni, inglobandoli negli elenchi delle conseguenze psicologiche della chiusura imposta. In realtà il romitaggio degli adolescenti esisteva già da anni e il Covid-19 ha, se mai, acceso l’interruttore e acuito, e non causato, un malessere latente. «Coloro che non erano isolati prima, con la pandemia hanno sperimentato un periodo di isolamento forzato, mentre coloro che si stavano già isolando prima, sono stati bene durante i mesi di chiusura prolungata perché non si sentivano più degli alieni diversi dagli altri – spiega la dott.ssa Di Liberto – tutti erano isolati come loro. Il problema è stato il rientro, quando hanno riaperto le porte, e molti di loro sono rimasti lì, non sono riusciti a uscire da quella stanza».

Il problema è stato quando hanno riaperto le porte, e loro non sono riusciti a uscire da quella stanza

In realtà, già qualche anno prima dello scoppio della pandemia si era iniziato, tiepidamente, a discutere di “Hikikomori” e ritiro sociale dei più giovani. «La televisione ha iniziato a interessarsi del fenomeno con i primi servizi delle Iene del 2016-2017, che erano andate in Giappone ad intervistare i “survivors”, anche se noi ce ne occupiamo già dal 2012, siamo stati tra i primi a livello nazionale».

Con l’emergenza sanitaria e la chiusura forzata, il telefono della Cooperativa, che ha la sua sede centrale a Milano, ha iniziato a squillare con più insistenza, ricevendo richieste d’aiuto dalle diverse Regioni d’Italia. «Seguiamo anche casi di ragazzi che prima della pandemia conducevano una vita normale, ma durante l’isolamento forzato sono emersi in loro fragilità, ansie, ipocondria, stati di angoscia e non sono più riusciti a rientrare in Università, nonostante i voti eccellenti».

Non è una “fase di passaggio”

L’Hikikomori è una sindrome, non una fase adolescenziale transitoria. È un disturbo che richiede un trattamento terapeutico, non uno “strappo” al continuum di serenità da rattoppare con una pezza, né una tappa giovanile destinata a risolversi spontaneamente con l’età. «Ci lavoriamo da undici anni, e finora un unico caso si è risolto da solo, dopo tanti anni – racconta la sociologa – . Si tratta di una persona che ha riscontrato le prime difficoltà sociali verso i 15 anni e che è entrata in contatto con la nostra Cooperativa nel 2020 all’età di circa 30 anni, quando è riuscito finalmente ad affrontare il mondo esterno, uscire, sperimentare attività di volontariato, recuperare gli anni di scuola persi, dopo anni di reclusione e isolamento… È un caso isolato, il più delle volte se non si interviene i disturbi si aggravano, fino a cronicizzarsi e peggiorare. Nei casi più gravi sperimentano pensieri suicidi».

La Cooperativa meneghina si avvale di una squadra di sociologi, psicologi, psicoterapeuti, counselor, educatori, ed affianca alle sedute di psicoterapia e supporto (con il singolo paziente e con la famiglia al completo) laboratori espressivi, di mindfulness, danzaterapia, arteterapia, che aiutano il giovane paziente a uscire dal guscio della sua camera da letto. «Fin dall’inizio coinvolgiamo anche i genitori e li inseriamo in gruppi di mamme e papà che hanno figli con gli stessi problemi – spiega la presidente della Cooperativa Hikikomori di Milano – . Insegniamo loro gli strumenti da applicare a casa per rasserenare il clima familiare, di solito rovinoso e caratterizzato da tensione a mille, pressioni, dinamiche di conflitto, che rischiano di compromettere le relazioni e che inducono i figli a ritirarsi sempre di più nella loro stanza».

"Il cielo in una stanza”

«Il cielo nella stanza» degli Hikikomori ha poco di quella visione romantica dei brani di Mina e Salmo. Rimangono le pareti, rimane il soffitto, scompare l’amore per un amante in carne ed ossa che è lontano, salvo che quell’amante non sia uno sfidante di gioco o un partner virtuale. «A trattenerli nella stanza è l’opportunità di costruirsi un mondo alternativo nel web, – spiega la dott.ssa Di Liberto – nel mondo dei videogiochi vengono accettati, riconosciuti, acclamati, gratificati perché magari sono bravi a giocare, si sentono inclusi nel gruppo».

Nel mondo virtuale gli Hikikomori investono energie fisiche e mentali, costruiscono amicizie, creano relazioni sentimentali

Nel mondo virtuale gli Hikikomori investono energie mentali ed emotive, costruiscono amicizie, a volte relazioni sentimentali con persone che conoscono nelle chat di gioco. È un lavoro per sostituzione: il virtuale diventa il loro reale, la loro zona di comfort, mentre il reale non esiste più, o tende ad annacquarsi, ad assumere confini sfumati. Gli unici confini nitidi rimangono quelli della loro stanza.

Il ruolo dei genitori

«Quando arrivano a chiedere aiuto, i genitori sono disperati» racconta la dott.ssa Di Liberto, che sottolinea il ruolo di protagonismo che rivestono le mamme e i papà nell’accompagnare i figli fuori dalla stanza e tornare in società. «Insieme al ragazzo, il terapeuta aiuta i genitori, che sono un punto di forza nevralgico nella “guarigione” del figlio, – continua l’esperta – se i genitori non collaborano, rischiano, nella loro inconsapevolezza, di smontare il lavoro dello psicologo e di continuare a riprodurre a ripetizione gli errori che vanno a rinforzare il problema».

Accettare che il figlio abbia scelto di autoescludersi dalla società non è semplice, specie se il genitore percepisce il carico del senso di colpa, o dello sguardo giudicante di chi lo accusa, più o meno velatamente, di aver fallito, o di essere un “cattivo genitore”. «I genitori non devono sentirsi colpevolizzati, – commenta la sociologa – loro sono una parte del problema, non l’unico. Il disturbo nasce da un insieme di concause, non solo quelle di natura familiare».

Lo stile genitoriale più critico che torna puntualmente nelle sedute è quello della mamma chioccia, iperprotettiva nei confronti del figlio. «Il genitore, in genere la madre, soprattutto se vede che il figlio è fragile e ipersensibile, tende a proteggerlo oltremodo, più di un figlio che dimostra di essere sicuro di sé nel mondo – spiega la dott.ssa Di Liberto – . Noi aiutiamo il genitore a riconoscere il fenomeno, a modificare i suoi comportamenti».

Fattori di rischio in famiglia sono l’approccio educativo giudicante e “normativo”, il poco dialogo fra le mura domestiche, la tendenza al conflitto, le alte aspettative a scuola o nello sport. «Se il figlio non riesce a essere performante o a soddisfare le aspettative, a volte i genitori si preoccupano o si frustrano, e si innescano dinamiche aggressive o di pressione, con scoppi di rabbia da parte di mamme e papà. Capita per esempio che spalanchino la porta della camera e stacchino la dsl del computer, aumentando il livello di conflittualità in famiglia e ostacolando il dialogo».

A volte i genitori sono gli ultimi ad accorgersi del disturbo del teenager che hanno in casa, mentre i figli si “autodiagnosticano” il disturbo riconoscendolo fra i sintomi indicati su Google. «Tanti ragazzi, anche se i genitori non se ne accorgono, vanno a cercare da soli informazioni in rete, si riconoscono nei profili descritti da professionisti e a volte entrano in contatto con gruppi di Hikikomori, confrontandosi con chi condivide le loro difficoltà».

Tra le vecchie generazioni non esistevano Hikikomori?

Il ritiro sociale è un fenomeno recente, legato a doppio filo all’avvento del digitale. «Alcune mamme di ragazzi Hikikomori hanno testimoniato che durante l’adolescenza hanno sperimentato diversi mesi di ritiro sociale, tuttavia ad un certo punto ne sono uscite autonomamente, perché a quei tempi non avevano pc, Internet, dispositivi digitali, che consentissero loro di creare realtà alternative e comunicare sul web».

I telefoni a fili sono stati rimpiazzati dagli smartphone, le lire sono state sostituite dagli euro, e il modello educativo delle famiglie è profondamente cambiato. «L’obiettivo dei genitori dei nostri genitori era rendere autonomi velocemente i figli, mentre oggi si tende a trattenerli dentro a casa, a ritardarne l’uscita, – risponde la dott.ssa Di Liberto – e in parecchie famiglie l’iperprotezione ha rallentato l’autonomia dei figli fino a bloccarla. I ragazzi non sanno interfacciarsi con gli adulti senza l’intermediazione dei genitori, occuparsi delle pulizie domestiche, svolgere attività manuali. Se ne occupano i genitori, che quindi non trasmettono conoscenza. È una forma di ipercontrollo che favorisce il loro senso di inadeguatezza, perciò è essenziale che mamme e papà infondano fiducia nei figli, consentano loro di sperimentare, di viaggiare, per evitare che perdano esperienze importanti per la loro crescita».

Grazie al bando “Attenta-mente” finanziato da Fondazione Cariplo, la Cooperativa continua, fino ad esaurimento delle risorse, a rispondere con interventi gratuiti alle richieste d’aiuto delle famiglie per contrastare il ritiro sociale e le dipendenze tecnologiche degli adolescenti.

«Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori», scriveva Calvino nel suo Barone Rampante. Come dei Cosimo del ventunesimo secolo, gli Hikikomori hanno scelto di isolarsi dalla società e dal resto della famiglia, arrampicandosi, anziché sui rami di un albero, sulle loro fragilità. L’obiettivo è aiutarli a scendere, rieducarli a un uso moderato delle tecnologie, e riportarli quanto prima con i piedi per terra. Che non significa tarpargli le ali, ma aiutarli a riconciliarsi con la famiglia, con gli amici, con la vita fuori, uscendo dal guscio buio delle relazioni a metà.

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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