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29 Gennaio 2024
18:00

Diritto all’anonimato o diritto a conoscere le proprie origini: quale prevale?

Secondo la legge italiana, un figlio non riconosciuto può conoscere l'identità del proprio genitore biologico solo se la madre è deceduta o accetta di rivelare la propria identità. La richiesta del figlio può essere accolta anche per accedere ad alcune informazioni sanitarie circa la sua salute, come eventuali malattie ereditarie.

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Diritto all’anonimato o diritto a conoscere le proprie origini: quale prevale?
Giurista, Mediatrice Familiare e Criminologa Clinica
Diritto all'anonimato o diritto a conoscere le proprie origini: quale prevale?

Il diritto dei soggetti nati da parto in anonimato a conoscere le proprie origini biologiche è stato oggetto di accesi dibattiti nel panorama nazionale e internazionale. Un diritto sempre più riconosciuto, ma che non trova piena attuazione perché in netta contrapposizione con altri diritti parimenti degni di tutela, come quello all’oblio.

Quali sono gli elementi da considerare in questo difficile rapporto di interessi tra diritto della donna al suo anonimato e diritto dei nati a conoscere le proprie origini?

Parto in anonimato e diritto alla privacy

La legge italiana, con il DPR 396/2000, consente alla donna di partorire in ospedale in condizioni di piena riservatezza, gratuitamente (indipendentemente dalla nazionalità e titolo di soggiorno) e di non dover poi necessariamente riconoscere il bambino. In questo caso verrà constatato lo stato di abbandono e la conseguente adottabilità.

La ratio sottesa a questa norma è evidente: garantire ad ogni donna un parto sicuro, con assistenza medica e ostetrica, in condizioni idonee per lei e il nascituro, ma senza per questo imporre alcun obbligo a riconoscere o crescere il figlio. Il riconoscimento del diritto al parto in anonimato ha, in questo modo, ridotto sensibilmente parti a rischio, abbandoni in condizioni igienico-sanitarie inadeguate e neonaticidi.

A seguito del parto in anonimato, nell’atto di nascita del bambino viene indicato "nato da donna che non consente di essere nominata" e in questo modo le sue generalità resteranno segrete, garantendole piena riservatezza.

La legge italiana tutela la madre che vuole rimanere anonima. Ma cosa succede se il figlio vuole far valere il proprio diritto alla conoscenza delle origini?

In aggiunta a questa normativa esiste, nel Codice della Privacy, uno specifico articolo con il quale si dispone che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, qualora contengano dati personali che rendano identificabile la donna che abbia partorito in anonimato, possano essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse “solo decorsi cento anni dalla formazione del documento”.

Si tratta della famosa "legge dei cent’anni", molto contestata, che tutela per un secolo la privacy della donna e prevede che la richiesta di accesso alla cartella clinica possa avvenire prima solo osservando le dovute cautele, affinché la donna non risulti in nessun modo identificabile.

Il diritto a conoscere le proprie origini

Se da una parte sono chiare le motivazioni che tutelano il diritto all’anonimato della partoriente, dall’altro non è possibile non considerare come degno di tutela anche il diritto del nato a conoscere le proprie origini.

Questo viene riconosciuto chiaramente da autorevoli fonti sovranazionali, come la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori.

In Italia la legge 184/1983 sancisce specificamente il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni che riguardino la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici, disponendo che possa essere attuato presentando un’istanza al Tribunale per i minorenni:

  • raggiunta l’età di 25 anni
  • raggiunta la maggiore età qualora sussistano gravi e comprovati motivi attinenti la sua salute psicofisica

Tale facoltà dell’adottato era, però, esclusa qualora il genitore avesse manifestato la chiara volontà di restare anonimo. Quindi, anche a queste condizioni, non si poteva accedere comunque alle informazioni inerenti le proprie origini nel caso di soggetti nati da parto in anonimato. In un assente contemperamento di interessi che vedeva prevalere sempre e comunque il diritto alla privacy della donna.

La Corte di Strasburgo ha aspramente criticato l’Italia per l’assenza di un meccanismo che bilanciasse correttamente gli opposti interessi del figlio e della madre.

Ambedue venivano considerati, a livello europeo, degni di tutela e il diritto all’anonimato (soprattutto se espresso decine di anni prima) non poteva considerarsi prevalente, in maniera assoluta e irreversibile, sul diritto a conoscere alle proprie origini.

figlio non riconosciuto

Il diritto all’identità personale rappresenta, infatti, un diritto fondamentale di ciascun essere umano e può essere correlato a motivazioni molto serie del richiedente, come la necessità di effettuare un’anamnesi familiare inerente patologie genetiche.

L’assoluta e irreversibile prevalenza del diritto all’anonimato è stato considerato un principio irragionevole, che portava a comprimere interessi inalienabili del soggetto nato da parto in anonimato. Se da una parte è, quindi, fondamentale garantire riservatezza e rispetto per la dignità della donna, appariva sempre più necessario dare un corretto spazio normativo anche ai diritti del figlio, negati dall’assenza di una qualsiasi possibilità di appello all’anonimato anche a distanza di molti decenni da quella decisione.

Sentenze e revisioni

L’assolutezza dell’anonimato e la sua totale irreversibilità sono stati considerati incostituzionali e, nel 2013, la Corte Costituzionale è intervenuta con una sentenza additiva (n. 278/2013) esplicitando il principio secondo il quale il figlio ha comunque diritto di chiedere al giudice di interpellare la madre. In maniera tale che questa possa decidere se revocare o meno la dichiarazione di anonimato fatto al momento della sua nascita.

A questa decisione, che dona finalmente rilievo al diritto a conoscere le proprie origini, si aggiunge nel 2016 una pronuncia della Cassazione (Cass. 15024/2016) che chiarisce come il limite di 100 anni non operi dopo la morte della madre biologica.

Con queste due pronunce si è quindi cercato di bilanciare i due interessi contrapposti, dando al figlio nato da parto in anonimato la possibilità da una parte di non dover rispettare il limite dei cento anni oltre la morte della genitrice; dall’altra di avviare in tribunale una specifica richiesta di accesso alle proprie origini se ancora in vita.

Anche nel panorama nazionale, quindi, si è arrivati a considerare l’assolutezza del diritto all’anonimato come una compressione irragionevole dei diritti del figlio. Questi potrà ora tutelare il proprio interesse, rispettando i canoni di liceità e correttezza e senza arrecare pregiudizio a terzi eventualmente coinvolti.

Ogni richiesta di accesso alle proprie origini, infatti, deve avvenire attraverso procedimenti che assicurino la massima riservatezza e il rispetto della dignità della donna coinvolta.

Diritto all'anonimato o diritto a conoscere le proprie origini: quale prevale?

Il diritto a conoscere le proprie origini ha, nel tempo, acquisito maggiore riconoscimento.

La tutela dell’identità personale dell’individuo ha aperto la strada a un maggiore bilanciamento degli interessi in gioco, abbattendo il velo di assoluta irreversibilità del diritto all’anonimato e facendo venir meno l’irragionevole limite dei cento anni anche oltre la vita della donna.

A seguito delle pronunce più recenti, quindi, di fronte alla richiesta di accesso alle proprie origini, il figlio nato da parto in anonimato si trova di fronte a due esiti possibili:

  • se la madre è in vita questa può accogliere o negare la sua richiesta;
  • nel caso sia morta, il figlio può essere autorizzato ad accedere alle informazioni circa la sua identità.

Evidente, quindi, come il diritto a conoscere le proprie origini, benché maggiormente tutelato, continui comunque a scontrarsi con l’eventuale e persistente volontà della donna di restare anonima.

La ricerca della sua identità, inoltre, deve sempre avvenire secondo modalità specifiche, che ne tutelino riservatezza e dignità e trova un confine invalicabile nel suo rifiuto, qualora sia ancora in vita.

Ma tutti i diritti del figlio vengono compressi di fronte al netto rifiuto della genitrice vivente? O ne esistono alcuni troppo importanti per poter soccombere di fronte al diritto all’anonimato?

Il dibattito sul tema è stato serrato e di recente la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n.22497 del 2021, ha precisato un aspetto importante: il diritto all’anonimato in merito all’identità della donna va tenuto distinto da quello ad accedere alle informazioni sanitarie circa la sua salute.

La conoscenza biologica delle proprie origini, infatti, segue spesso una logica tesa a delineare la propria identità personale, ma può anche nascere da un bisogno differente, ovvero quello di salvaguardare la propria salute. Il richiedente potrebbe, infatti, voler accertare o individuare particolari patologie di tipo genetico o procedere a una necessaria anamnesi familiare.

Qualora nel contemperamento di interessi venga quindi in rilievo un comprovato diritto alla salute del figlio nato da parto in anonimato, l’accesso alle informazioni potrà avvenire indipendentemente dalla volontà della donna e anche prima della sua morte. Sempre nel pieno rispetto della sua riservatezza.

In questo modo viene garantito comunque l’anonimato, ma non più a scapito del diritto alla salute del figlio.

Procedura di interpello

Il procedimento per conoscere le proprie origini è quello previsto dalla legge 184/1983, da avviare con tutti gli accorgimenti necessari a garantire la riservatezza della donna che abbia partorito in anonimato. Si deve attuare la cosiddetta procedura di interpello, un’interrogazione "riservata" che potrà essere fatta una sola volta.

La ricerca e il contatto della genitrice devono avvenire con il massimo rispetto della sua dignità e riservatezza, tenendo conto della sua età, del suo stato di salute nonché della condizione personale e familiare.

Alcuni Tribunali per i minorenni hanno quindi adottato delle vere e proprie linee guida:

  • ricevuto il ricorso da parte dell’interessato, il Tribunale forma il fascicolo e lo secreta
  • la polizia giudiziaria viene quindi incaricata di acquisire le dovute informazioni
  • se la madre è in vita i servizi sociali recapitano a mano una lettera di convocazione per comunicazioni orali
  • il giudice viene prontamente informato delle condizioni psicofisiche della donna
  • il colloquio avviene tra la sola madre e il giudice
  • durante il colloquio viene informata della richiesta del figlio di conoscere le proprie origini.

Una volta espletata la procedura di interpello esistono due possibili esiti:

  • la madre non offre il proprio consenso al disvelamento della sua identità, in questo caso il giudice lo comunica per iscritto al Tribunale
  • la donna consente a rivelare la propria identità e sottoscrive un verbale, redatto dal giudice, e il suo nome viene rivelato al figlio.
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