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19 Luglio 2023
11:34

Licenziata dopo la fecondazione in vitro: ora il caso è in tribunale

Una donna di 30 anni di Chivasso (Torino) sarebbe stata vittima di mobbing e body shaming da parte di colleghi e datore di lavoro a causa della sua decisione di ricorrere alla FIVET per diventare madre.

A cura di Sara Polotti
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Licenziata dopo la fecondazione in vitro: ora il caso è in tribunale
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Una donna torinese di 30 anni, a causa del mobbing ricevuto e della situazione stressante a cui è stata sottoposta, ha perso il bambino in grembo (secondo il personale medico) ed è stata licenziata.

Il motivo, secondo chi la difende, è proprio quel bebè. Tutto infatti pare essere cominciato in seguito alla decisione di sottoporsi alla fecondazione assistita per rimanere incinta.

La donna protagonista della vicenda si chiama Samantha G. ed è di Chivasso. Qualche anno fa, dopo aver comunicato la decisione di iniziare un percorso di fecondazione assistita per diventare madre, ha iniziato a essere vittima di mobbing all'interno dell'azienda per cui lavorava. Erano "solo battute goliardiche", secondo i colleghi e il datore di lavoro.

"Lavorava", al passato, perché dopo la decisione di trasferirla nella filiale di Torino (ciò che più di tutto ha causato lo stress emotivo che avrebbe provocato l'aborto spontaneo) la ragazza è stata licenziata (lo scorso febbraio).

Ora sarà il Tribunale di Ivrea a esprimersi contro o a favore di questo licenziamento, che tuttavia semplice licenziamento non è. Attorno a esso c'è tutto un corredo di battute infelici, provocazioni e atteggiamenti sconvenienti da parte di colleghi e capi filiale. Del vero e proprio mobbing.

Foto denigratorie sui social network (Samantha che mangia un croissant, corredata dal commento "Mangia che poi che me ne importa?"), commenti sgradevoli ("Se il tuo compagno non ci riesce ci penso io a metterti incinta", le disse il capo filiale), body shaming relativamente ai cambiamenti fisici della donna in seguito ai trattamenti ormonali… La situazione a quanto pare era seria e sfaccettata, e accanto agli atteggiamenti tipici del mobbing la donna era costretta a una quotidianità disagiante.

Stando a quanto riportato da diversi quotidiani online, per il legale della donna, Alexander Borato, "la mia assistita, secondo l’azienda, avrebbe superato il ‘periodo di comporto', ovvero il totale delle assenze per malattia disponibili. Ma hanno sbagliato, perché nessun giorno di malattia è calcolabile se provocato dalla condotta del datore di lavoro. E poi perché sono stati inseriti anche i giorni di ricovero per la fecondazione e quelli per l’aborto che, per legge, non devono essere conteggiati. Per questo abbiamo deciso di opporci al provvedimento di licenziamento".

Anche la stessa donna in questi giorni si espressa in merito alla sua vicenda: "Quello che mi ha fatto soffrire di più", ha detto alla stampa,  "è il comportamento di alcuni miei ‘superiori', le loro battute, i messaggi, quando quasi mi minacciavano dicendo ‘scegli se vuoi fare la mamma o mantenere il posto di lavoro'. Ero e sono in un momento molto difficile della mia vita e quello che mi è successo proprio non ci voleva perché mi ha sconvolto".

"Chiederemo ai giudici", conclude quindi l'avvocato, "di condannare l’azienda al risarcimento del danno cagionato per averla sottoposta a trattamenti mobbizzanti e di body shaming a partire dal 2019. Oltre ad integrare le differenze retributive mai percepite".

Le informazioni fornite su www.wamily.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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