episodio 2

Premi e ricompense ai bambini, è giusto darli?

Da genitori ci capita spesso di promettere una ricompensa ai nostri figli per incentivarli a compiere un’azione. Non sempre però, dare premi è il modo giusto per motivarli.

26 Gennaio 2024
12:45
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Premi e ricompense ai bambini, è giusto darli?
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“Se finisci i compiti andiamo a comprare il gioco che vuoi!”. Da genitori ci capita spesso di promettere una ricompensa ai nostri figli per incentivarli a compiere un’azione. Ma questo è davvero il modo giusto per motivarli?

La risposta è parziale: sì e no. Se promettiamo una ricompensa ci sono buone probabilità che un bambino porti a termine il compito. Ma c’è un “ma” grande quanto una casa, e ora vi spiego perché.

Le ricompense e la psicologia

Per capire il meccanismo delle ricompense dobbiamo disturbare qualche topolino. Lo psicologo Burrhus Skinner, e come lui tanti altri, è riuscito a provare che se a un’azione corrisponde una ricompensa, il cosiddetto “rinforzo positivo”, molto probabilmente questa azione verrà ripetuta per ottenere di nuovo il premio. È il famoso esperimento del topolino che spingendo una leva ottiene del cibo. Ma effettivamente bambini e topolini non funzionano proprio alla stessa maniera?

Alfie Kohn, stimato professore e studioso di scienze sociali, sostiene che se un ragazzo si trova davanti a un problema che deve risolvere, offrire una ricompensa non solo limiterà l’apprendimento e la creatività ma addirittura lo porterà ad ottenere un risultato qualitativamente più basso.

Come mai? Beh perché le ricompense vanno a interferire con le motivazioni intrinseche, vale a dire l’interesse, il piacere e la curiosità di fare qualcosa.

In pratica, proponendo una ricompensa, è come se stessi dicendo a priori che ciò che chiedo non è molto bello da fare, e per questo c’è bisogno di un premio per renderlo più interessante. Sto svilendo quindi il compito stesso. Insomma, la vecchia teoria del bastone e della carota non funziona, e anzi in molti casi è controproducente perché potrebbe bloccare la creatività dei nostri ragazzi.

L’esperimento della candela

C’è un esperimento, secondo me molto interessante, che spiega come mai dare un premio può penalizzare la creatività e la qualità del risultato. È l'esperimento della candela di Sam Glucksberg.

Il professor G. divise i partecipanti all’esperimento in due gruppi con lo stesso obiettivo: appendere una candela al muro senza far cadere la cera sul tavolo. Diede loro la candela, dei fiammiferi e una scatola con delle puntine, tutto poggiato su un tavolo vicino al muro.

Al primo gruppo disse che li avrebbe cronometrati con lo scopo di capire semplicemente in quanto tempo avrebbero risolto il problema. Al secondo gruppo offrì, invece, una ricompensa in denaro. Curiosamente, furono proprio quelli del secondo gruppo che impiegarono più tempo per risolvere il problema.

Questo perché gli incentivi, contrariamente a quello che abbiamo sempre pensato, hanno un effetto negativo sui compiti che richiedono creatività. In questo caso la soluzione richiedeva un po’ di ingegno perché la scatola, che conteneva le puntine, si poteva svuotare e usare come sostegno per la candela.

In pratica la ricompensa ha fatto focalizzare i partecipanti sull’obiettivo da raggiungere in poco tempo,  portandoli quindi a ragionare sulle soluzioni più immediate e veloci per ottenerlo. Ha quindi ristretto la loro attenzione e ridotto le loro possibilità.

Ecco perché i premi non vanno bene per quei compiti che richiedono soluzioni più complesse e un pensiero creativo.

Quando funzionano le ricompense? 

Gli incentivi funzionano quando il traguardo da raggiungere è chiaro e le regole sono semplici.

Immaginiamo di avere l’obiettivo lì, davanti a noi: i premi funzionano perché ci aiutano a concentrarci solo su quello. I premi limitano le distrazioni e ci fanno raggiungere il risultato quando il percorso per arrivarci è dritto.

Non è un caso che siano stati usati così tanto nel mondo del lavoro, anche se bisogna dire che oggi si stanno mettendo in discussione in molti contesti di crescita personale.

Però con i figli il discorso è diverso. Il rischio è che passi questa idea: non è importante quello che sei ma quello che fai; ti accetterò solo quando ti sarai impegnato così tanto da aver prodotto un risultato adeguato alle mie aspettative.

Invece, secondo Kohn, dovremmo lasciare agire i bambini in base al loro desiderio di scoperta. Il nostro compito sarà semplicemente quello di occuparci del contesto in cui si trovano, di aiutarli e di supportarli. Dovremmo lasciarli liberi di prendere decisioni, perché solo così impareranno a prendere quelle migliori per loro.

Un esempio pratico

Poniamo il caso in cui si voglia incoraggiare un figlio a tenere in ordine la propria stanza e dunque gli si proponga in cambio un giocattolo ogni volta che porterà a termine il compito.

Nostro figlio inizialmente sembrerà essere contento di ricevere un regalo, per cui manterrà volentieri la stanza pulita. Con il tempo però, questa strategia inizierà sicuramente a mostrare i suoi limiti. Il bambino pulirà la stanza solo per ottenere il premio, non perché lo trovi utile.

Oltre a ciò finirà per pensare che ogni azione merita una ricompensa. Un'aspettativa che risulterà irrealistica nella vita adulta. E poi probabilmente quel giocattolo non basterà più, perderà d’interesse e nostro figlio ne vorrà sempre di più. I suoi comportamenti saranno dettati esclusivamente da incentivi esterni allontanandolo da una direzione di autodisciplina e autonomia.

I metodi alternativi per motivare i nostri figli

Parlando di modelli d’impresa (che sono inevitabilmente quelli più analizzati) uno studioso della motivazione umana di nome Daniel Pink dice che è necessario dare ai dipendenti tre cose: autonomia, padronanza e scopo. Che in un certo senso è un po' quello che dovremmo garantire ai nostri figli quando devono svolgere dei compiti.

Cosa vuol dire autonomia? Mamma, papà, insegnante: non vi preoccupate, posso guidare il timone della mia vita, ce la posso fare anche senza essere troppo pilotato.

Cosa si intende per padronanza? Nel modo in cui faccio le cose c’è qualcosa di importante per me, qualcosa di mio, che mi motiva a migliorare in quello che faccio.

E qual è lo scopo? Lo scopo è fare le cose dando loro il significato che è nella mia testa di ragazzo o di bambino, non quello di un’altra persona.

Quando posso dare una ricompensa a mio figlio?

Spetta a noi decidere quanto sia importante quello che stiamo chiedendo. Se stiamo parlando di un compito che viene svolto una tantum, senza troppi risvolti educativi e formativi, proporre una ricompensa potrebbe essere un'opzione, sì. Ma in altri contesti potrebbe essere una strategia fallimentare. Lo so, è complicato capire su cosa sia più importante investire le nostre energie di genitori. Ma molto probabilmente qualche ricompensa in meno e qualche confronto in più lo renderanno più sicuro di sé e delle sue capacità, e di conseguenza meno spaventato dalle sfide del mondo esterno.

Ma soprattutto scoprirà quanto può essere gratificante provare passione e interesse per qualcosa.

Sono un Dottore in Psicologia Clinica. Dopo aver conseguito la laurea presso l'Università Niccolò Cusano di Roma, sto frequentando la Scuola di Psicoterapia Integrata con Orientamento Psicoanalitico a Firenze. Prima ancora ho esplorato la mia passione per le arti, diplomandomi nel 2016 all'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico", per poi approfondire gli studi al Centro di Santa Cristina sotto la guida di Luca Ronconi e al Teatro Argentina di Roma. Il mio impegno in Wamily nasce dalla convinzione di padre che sia essenziale lavorare sulla genitorialità. La perfezione in questo ambito è un mito, mentre studio e informazione possono giocare un ruolo cruciale nel garantire una crescita sana e felice ai nostri bambini, con conseguenze positive per tutta la nostra società.
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