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17 Marzo 2023
11:00

Co-sleeping o room-sharing? Ecco quale tra le due abitudini è più sicura

Sono sempre di più i genitori che, prendendo spunto dalle culture orientali nelle quali è più diffuso, scelgono il co-sleeping (o bed-sharing) con i propri figli. Ma l’Accademia dei Pediatri Americani non approva e suggerisce il room-sharing: ecco cos'è e perché parrebbe migliore.

A cura di Sara Polotti
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Co-sleeping o room-sharing? Ecco quale tra le due abitudini è più sicura
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Probabilmente avete già sentito parlare di co-sleeping. Si tratta di una pratica che si sta diffondendo anche in Occidente, che consiste nel fare dormire i propri figli nel letto con i genitori, almeno nei primi anni di vita.

In realtà il co-sleeping cela diverse controversie, a partire dal nome stesso, molto generico e spesso soggetto a confusione poiché con "condivisione del sonno" (questo il significato di co-sleeping) non si specifica se tale comunanza debba avvenire nello stesso letto o solo nella medesima stanza. Il termine più calzante sarebbe infatti  bed-sharing, poiché è proprio nella condivisione del letto il fulcro della pratica.

Il principio è infatti abbastanza chiaro: contrariamente alle scuole di pensiero che promuovono la tecnica del lasciare piangere i bambini nella loro stanza finché non si abituano alla lontananza, questa prevede il contatto fisico e la vicinanza come strumento per una nanna più serena.

L’AAP, l’Accademia dei pediatri americani (e buon parte della comunità scientifica) però non vede di buon occhio questa scelta. Anzi, la sconsiglia in qualunque circostanza, vietandola espressamente nel caso di bambini più piccoli di 4 mesi, particolarmente minuti o pre-termine.

Per gli esperti è molto meglio il room-sharing.

Ma cos’è quindi il room-sharing? E quali sono i benefici?

Cos’è il room-sharing

Come suggerisce il nome, il room-sharing altro non è che la condivisione della stanza. Esattamente come il co-sleeping, quindi, prevede il sonno condiviso, ma in letti separati. Chi tiene la culla o il lettino del bebè in camera, di conseguenza, pratica il room-sharing. Anche nel caso della culla laterale che s’appoggia al lettone, anche se in quel caso il confine è meno netto, dal momento che il bebè riposa senza alcuna netta separazione rispetto ai genitori.

Secondo l’AAP, questa pratica è migliore e più sicura rispetto al co-sleeping nel lettone (tra i cui rischi vi sono quello di schiacciare involontariamente il bebè o quello di fargli respirare nicotina e altre sostanze tossiche), e la raccomanda almeno per i primi 6 mesi di vita del bambino, e idealmente fino al primo anno d’età.

Quali sono i benefici

Rispetto al co-sleeping, il room-sharing permette ai genitori di dormire nel proprio letto mantenendo comunque la vicinanza con il bebè, che dorme a pochi passi da loro, ma nella sua culla o lettino. Questo favorisce il bonding e il legame, che è un aspetto da non sottovalutare durante la crescita: il bambino resta un cucciolo di mammifero e come tale ha in sé un istinto di sopravvivenza che lo porta a cercare costantemente la vicinanza dei genitori.

room sharing culla

Di conseguenza, il room-sharing può attenuare la naturale ansia di separazione che coglie un neonato quando, svegliandosi, si trova da solo.

Allo stesso tempo, dormire vicino ai bebè può ridurre il rischio di SIDS, o Sudden Infant Death Syndrome, la sindrome da morte improvvisa in culla senza apparenti motivazioni, come spiegano sempre dall’AAP.

I contro però non mancano

Non mancano tuttavia i dubbi rispetto a questa pratica. E sono gli stessi pediatri americani a mettere in guardia: se, infatti, il room-sharing è molto apprezzato da parecchi genitori che preferiscono fare sentire la propria presenza ai loro bebè (e sentire la presenza dei bambini a loro volta, accorrendo immediatamente nel caso di bisogno senza dover attraversare stanze e corridoi), è indubbio che questa abitudine influenzi — non sempre positivamente — la qualità del sonno di tutta la famiglia.

Il room-sharing ha molti benefici, ma può abbassare la qualità del sonno

L’altro lato della medaglia, infatti, riguarda le ore di effettivo sonno. Uno studio condotto dall'Università Penn State ha messo in luce come in molti casi la condivisione della stanza porti a una riduzione delle ore dormite, a risvegli più frequenti e in generale a una ridotta qualità del sonno.

È normale, quindi, non sentirsi completamente a proprio agio con il room-sharing: la privazione del sonno ha effetti molto importanti sul fisico, e quando la condivisione della stanza pesa sul riposo delle persone, allora è bene considerare pro e contro, scegliendo la pratica che più si addice al benessere familiare. Come, d’altra parte, suggeriscono da Harvard, dal momento che ogni famiglia e ogni bambino sono differenti. L’importante, secondo loro, è avere una buona routine del sonno, a prescindere dalla scelta di condividere o meno stanze e letti.

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