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4 Giugno 2023
9:00

«Mio figlio ha la sindrome di Cockayne. Esistono 10 casi in Italia». Giada racconta l’invecchiamento precoce del piccolo Roberto

Giada, 25 anni, ha due figli, Matilde, 5 anni, e Roberto, 2 anni, affetto dalla sindrome di Cockayne, una malattia genetica rara degenerativa che rientra nelle sindromi di invecchiamento precoce. «Ha i tratti di un adulto e il corpo di un neonato di 6 mesi» racconta a Wamily Giada.

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«Mio figlio ha la sindrome di Cockayne. Esistono 10 casi in Italia». Giada racconta l’invecchiamento precoce del piccolo Roberto
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Si chiama Roberto, ha quasi 2 anni, ed è uno dei circa dieci piccoli affetti dalla sindrome di Cockayne attualmente in vita in Italia. La sua è una malattia genetica estremamente rara, che causa invecchiamento precoce e colpisce 2-3 nuove nascite per milione di neonati negli Stati Uniti e in Europa. «Appena ci hanno comunicato la notizia, ho digitato su Google “sindrome di Cockayne”, non sapevo nemmeno come si scrivesse… Quando ho letto di che cosa si trattasse, mi è preso un colpo» racconta a Wamily Giada Di Berardino, giovane mamma di Roberto, che da qualche mese ha iniziato a sensibilizzare gli utenti sulla malattia genetica del figlio, la cui aspettativa di vita non supera i 10 anni di età. «Dopo un anno non è ancora stata riconosciuta l’invalidità a Roberto» denuncia Giada, che, sprovvista dell’attestazione di invalidità del figlio, non può richiedere gli ausili adatti alle sue esigenze, dal seggiolone alla statica per la ginnastica. «Mi vivo ogni giorno di Roberto felice, perché so che la situazione potrebbe degenerare in poco tempo. Quando mi chiedono: “Come fai?”, rispondo: “Ce la faccio e basta, perché è mio figlio”».

La storia di Roberto

Roberto nasce nel 2021, dopo una gravidanza tranquilla, con esami ed ecografie nella norma. Il sospetto che qualcosa in lui non vada germoglia in mamma Giada intorno ai 6 mesi di vita, quando Roberto, che fino a quel momento era aumentato di circa 200g a settimana, smette di crescere. A 7 mesi non riesce ad afferrare gli oggetti, né a stare seduto.

Non appena lo visita, il neuropsichiatra indirizza Giada al Policlinico Gemelli di Roma per un controllo genetico. Il neonato, spiega il medico, ha una «faccia particolare». Occhietti infossati, mento sporgente, naso pronunciato: Roberto ha i tipici lineamenti riconducibili a una sindrome genetica.

«Inizialmente ci hanno prospettato l’ipotesi della sindrome di Bloom, un’altra malattia rara piuttosto grave, ma dopo 20 giorni è arrivato l’esito dell’esame che l’ha esclusa. – spiega Giada – Speravamo si trattasse di un ritardo motorio, mi dicevo: “Magari questa faccetta è sua, magari si sbagliano”». E, invece, i medici, confrontando il volto di Roberto con le immagini di bambini con una determinata malattia genetica, arrivano ad una nuova conclusione: sindrome di Cockayne.

Ad appesantire la notizia, si aggiunge la logorante attesa per la diagnosi definitiva. «Ci avevano prospettato un anno di tempo per avere il risultato degli esami» spiega Giada, che, non sopportando l’idea di aspettare impotente mesi preziosi per una risposta, inizia le sue ricerche online. Trova un gruppo su Facebook costituito da mamme provenienti da tutto il mondo con figli con la sindrome di Cockayne. «Mi hanno messa in contatto con una ricercatrice di Pavia che studia la sindrome – spiega Giada –. Grazie a lei dopo meno di un mese ho avuto i risultati».

Emerge che Giada e il suo ex compagno sono entrambi portatori sani della sindrome di Cockayne, senza saperlo. Avevano una possibilità su quattro che il figlio fosse malato, una su quattro che fosse sano, e due su quattro che fosse un portatore sano. «La diagnosi è stata uno dei motivi alla base della separazione – racconta Giada, che insieme al suo ex compagno ha un’altra figlia, Matilde, di 5 anni, sana –. Durante la gravidanza avevo una sensazione strana, sentivo che qualcosa non andava, e quando ho avuto quel risultato ho pensato: ecco, qualcosa allora c’era».

L’invecchiamento precoce

In Italia e nel mondo sono pochi i neonati affetti da sindrome di Cockayne, una malattia genetica rara degenerativa per cui ad oggi non esiste una cura. Rientra nelle sindromi dell’invecchiamento precoce e comporta deficit cognitivo, disturbi neurologici, ipertensione, rigidità muscolare, oltre ad essere caratterizzata da lineamenti marcati del viso. «In Italia nessuno ne parla, – ci racconta Giada, che si trova ad affrontare la condizione del figlio a 25 anni – negli Stati Uniti, invece, una bimba ha aperto un canale per parlare della sua malattia. Dopotutto, se non ci passi non lo sai».

«Roberto ha dei tratti facciali da adulto, nonostante sia grande quanto un neonato di 6 mesi» continua Giada, spiegando che il genetista le ha prospettato per Roberto, nella migliore delle ipotesi, un'aspettativa di vita che non supera i 10 anni di età, a causa anche dell’insorgenza precoce dei sintomi. «Una ragazza affetta dalla sindrome di Cockayne è scomparsa a 18 anni, anche se nel corpo ne dimostrava 4» aggiunge Giada.

Convivere con la sindrome di Cockayne

Giada è in un gruppo Whatsapp che conta, fra i suoi partecipanti, una ventina di mamme italiane che vivono, o hanno vissuto, la sua esperienza. Madri di piccoli con la sindrome di Cockayne, oggi in vita o venuti a mancare a causa della malattia, che si scambiano consigli e pareri su come gestire quella sindrome tanto sconosciuta e poco indagata anche nel mondo medico. «Magari quello che io sto passando in quel momento, un’altra mamma l’ha già vissuto e può darmi un consiglio» ci spiega.

Grazie al suo attivismo, Giada ha trovato due mamme di Napoli con figli affetti dalla sindrome degenerativa. «Non sapevano del gruppo, – racconta Giada – ho aggiunto anche loro». Si confidano, raccontano le loro storie, condividono i loro punti di vista sull’evoluzione della malattia e sulle operazioni da affrontare, trovano supporto e ascolto in quella manciata di persone che si è trovata, esattamente come ognuna di loro, spiazzata davanti all’ignoto di una malattia che presenta ancora tanti punti di domanda.

A un anno di distanza dall’invio della richiesta, non è ancora stata riconosciuta l’invalidità a Roberto. «Più del sussidio economico, m’interessa ricevere il foglio che ne attesta l’invalidità per poter richiedere gli ausili – spiega Giada – Roberto ha bisogno di un passeggino e di un seggiolone adatti alle sue esigenze, e una statica per fare ginnastica». Una statica adatta alle piccole misure di Roberto, che viene fabbricata in America e, quindi, deve essere spedita in Italia. «Ad oggi badiamo noi alle spese – continua – ma è un diritto che gli spetta».

Fortunatamente l’Asl ha riconosciuto la fisioterapia gratuita a Roberto, che partecipa a quattro sedute di neuropsicomotricità a settimana. «Siamo al centro di riabilitazione quasi tutti i giorni – commenta Giada – l’attività lo aiuta ad alleviare la sua rigidità muscolare. Se non facesse terapia sarebbe come un ciocchetto di legno».

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Roberto con la sorella Matilde

Roberto ha una sorella di tre anni più grande, Matilde. «Lei è super protettiva nei confronti di Roberto – racconta Giada – se, quando la andiamo a prendere a scuola, un suo compagno lo tocca, lei lo sgrida: “Piano, mio fratello è delicato, è piccolo”. Quando vede i fratellini delle sue amiche che camminano, mi chiede: “Mamma, perché Roberto non cammina?. Le ho spiegato che lui ha una cellula che non funziona, e per quello non parla, mangia poco ed è piccolo… Che vuoi raccontare a una bambina?».

«Non mi rendo conto del tempo che passa, – rivela Giada – mi accorgo che sono trascorsi due anni solo quando guardo Matilde, perché la vedo crescere. Con Roberto mi sembra di rimanere sempre ferma allo stesso punto. A volte mi chiedo: “Chi sarebbe stata Giada se non fossi in questa situazione?”, credo sia umano. Ho i miei momenti di sconforto, a volte cedo, piango, sbraito, ma poi vado avanti. Mi vivo ogni giorno di Roberto felice, perché so che il Roberto di oggi, pur avendo dei limiti e creando dei limiti, sta bene».

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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