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28 Febbraio 2023
9:00

“Noi siamo tutti e tre adottati”: Micaela ci racconta la vita con Paolo e loro figlio Jimmy

Micaela e Paolo sono i genitori di Jimmy, un bambino nato in Colombia e arrivato in Italia nel 2012. I due hanno scelto di adottare un bambino il cui nome si trovava in quelle liste chiamate "special needs", ossia affetto da una patologia. Micaela ci ha spiegato le difficoltà e le gioie del percorso adottivo, di quanto sia importante narrare l'adozione e meraviglioso sentirsi chiamare "mamma" e "papà".

A cura di Sophia Crotti
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“Noi siamo tutti e tre adottati”: Micaela ci racconta la vita con Paolo e loro figlio Jimmy
famiglia anonimia di spalle figlio

Ci sono casi in cui essere dei buoni genitori significa anche lasciare che il bambino salga sul letto con le scarpe, se è il suo modo per sentirsi libero di poter scappare. É la storia di Micaela, suo marito Paolo e del piccolo Jimmy, il loro bambino nato in Colombia, terra che ha lasciato il 27 giugno 2012, per arrivare in Italia. Ed è anche la storia di tutti gli sforzi fatti da una mamma e un papà per insegnare a un bambino che conosceva solo l’abbandono, che famiglia vuol dire sapere di non doversene andare più.

La genitorialità è un percorso che inizia molto prima di diventare una famiglia. Per Micaela e suo marito è iniziato con la consapevolezza di non poter avere un figlio in maniera naturale, o meglio di poterlo avere ma nel 50% dei casi con una patologia molto grave.

Di tutta risposta hanno deciso di adottare, ma non un bimbo qualsiasi, bensì un bambino che rientrasse nelle liste “special needs”, ovvero delle sezioni dedicate a quei bambini che difficilmente trovano una famiglia adottiva perché o sono molto grandi, o devono essere adottati con i fratelli o, come nel caso di Jimmy, hanno una patologia.

Perché per Micaela e Paolo non è mai stato un problema pensare di accogliere un bambino malato, semplicemente non volevano che il loro desiderio di genitorialità fosse dettato da mettere al mondo un figlio nato da loro a tutti i costi: «Siamo sempre stati disponibili a farci carico della situazione di Jimmy, anzi, saper di poter migliorare la sua condizione sanitaria per noi è una cosa meravigliosa».

Jimmy è arrivato nelle loro vite mentre dormiva, dopo essersi appisolato in macchina nel tragitto che separava la casa dell’equipe che lo aveva preparato all’adozione dall’albergo dove lo attendevano Micaela e Paolo, in Colombia. Da quel giorno in poi per lui dormire sarebbe stato sempre un momento molto difficile, perché aveva imparato che ci si poteva addormentare in un posto e risvegliare in un mondo diverso, con persone che parlavano una lingua diversa dalla sua e che non riconosceva. Infatti, quando è arrivato dai suoi genitori si è chiuso a riccio: «Io quegli occhi non li dimenticherò mai – ci dice Micaela – erano spenti, persi nel nulla e io nella mia testa immaginavo i suoi pensieri “Chi sono questi? Cosa vogliono da me?”».

Poi le cose con il tempo sono migliorate, e i 3 si sono "adottati l’uno con l’altro": «Famiglia per me siamo noi tre, io e Paolo che facciamo da cuscinetto a Jimmy, e Jimmy che con i suoi tempi, da “oh” ha iniziato a chiamarci mamma e papà».

Ovviamente non è tutto semplice: il percorso di accettazione è lungo, fatto di momenti di rabbia che i bambini non si spiegano e per la quale si colpevolizzano. La narrazione dell’adozione, infatti, continua tutti i giorni ed è importantissima, anche se è stata difficoltosa all’asilo, quando le maestre si sono rifiutate di parlare alla classe di abbandono, perché avrebbe potuto traumatizzare i bambini. Che stranezza pensare che dei bambini potessero rimanere spaventati da una storia a lieto fine come quella di Jimmy!

Micaela le difficoltà le conosce tutte perché le ha vissute, ma si stupisce sempre quando, parlando dell’iter adottivo, proprio non riesce a fare altro che raccontare le cose belle. Eppure lo dicono tutti che i tempi sono lunghi e anche per lei questo è innegabile, ma serve entrare nell'ottica che il tempo è necessario a scavare dentro di sé. «Quando desideri enormemente un figlio e finalmente arriva, quando sai che è tuo, è lì per te e non se ne andrà, allora dimentichi la fatica, l'attesa, le difficoltà e faresti di tutto, anche andare dall’altra parte del mondo, come abbiamo fatto noi».

Micaela, raccontaci della tua famiglia.

Io e Paolo, mio marito, oggi abbiamo 47 anni e per problematiche genetiche abbiamo deciso di non avere dei figli in maniera naturale. Siamo a conoscenza di questa difficoltà da quando eravamo ragazzi, poi crescendo abbiamo approfondito questo argomento. Abbiamo capito che per noi avere un figlio che nascesse dalla mia pancia, significava giocare alla roulette russa, avevamo il 50% delle possibilità che nascesse sano e il 50% che nascesse con patologie importanti. Quindi confrontandoci, ma in modo del tutto spontaneo abbiamo scelto di intraprendere la strada dell'adozione.

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Io e Paolo abbiamo iniziato con le domande di adozione quando avevamo 34 anni, nell’adozione le date sono preziosissime durante l'iter pre-adottivo. Ci appuntavamo tutto, non dimenticavamo neanche un secondo, poi quando è arrivato nostro figlio ci siamo dimenticati di tutto, tutte le fatiche fatte anche prima, forse perché poi lo sguardo è solo proiettato al futuro con lui.

Le date sono importantissime nell'adozione, poi quando arriva tuo figlio dimentichi tutto, la fatica, l'attesa e guardi solo al futuro

Siamo stati chiamati ben tre volte per l’adozione nazionale, anche se poi non è stato destino. La nostra strada è stata quella dell'adozione internazionale: abbiamo adottato Jimmy, un bimbo di 2 anni e 5 mesi che arrivava dalla Colombia. Nostro figlio rientrava nelle liste special needs, per problemi di salute. Il canale delle special needs dovrebbe essere presente per tutti i Paesi ed essere prioritario.

Proprio per questa ragione il nostro iter pre-adottivo è stato anche veloce: abbiamo fatto domanda a inizio 2010 e a maggio 2012 eravamo in volo per la Colombia, siamo stati molto veloci e fortunati. Anche se quando io dico “fortunati”, la nostra referente dell'ente ci dice sempre che la fortuna viene sempre guidata dalle scelte che si fanno, anche perché non tutte le coppie danno disponibilità per bambini con special needs. Adesione che deve essere consapevole e reale.

Quando siete arrivati in Italia eravate già genitori a tutti gli effetti?

Quando siamo arrivati in Italia il piccolo è diventato nostro figlio anche burocraticamente, perché queste procedure di passaggio vengono fatte nel Paese di origine, in Colombia. Il bimbo, in Colombia, è arrivato da noi 3 giorni dopo il nostro arrivo e da quel giorno è rimasto con noi per sempre.

Come è stato l’incontro?

L’incontro è stato molto emozionante. Lui era piccolino ma era stato preparato, era in una famiglia affidataria, dalla quale è stato distaccato qualche giorno prima, grazie a psicologi e assistenti sociali. Nei mesi precedenti il nostro incontro, al piccolo venivano fatte vedere delle nostre fotografie, così che capisse chi fossimo. Poi ovvio che un bambino così piccolo capisce quello che può per la sua età.

Eravamo consapevoli che l'incontro sarebbe stato molto istintivo. Lui quando è arrivato dormiva, perché aveva fatto 20 min di macchina. L’incontro è stato un passaggio, dormiva tra le braccia di un membro dell'equipe e io l’ho preso in braccio. Poi lui si è svegliato e si è spaventato, aveva il magone, noi abbiamo cercato di rassicurarlo, facendogli vedere l’album di foto tramite cui ci aveva conosciuti e cercando di spiegargli chi fossimo.

Io gli occhi di Jimmy non li dimenticherò mai, erano spenti, si chiedeva chi fossimo io e il suo papà

É stato emozionante perché lui si è chiuso a riccio, ha messo un muro, era preoccupato, io quegli occhi non li dimenticherò mai, perché erano spenti… mi emoziona ancora parlarne. Sì, Jimmy aveva cambiato volto, la sua espressione era persa nel nulla, ci valutava. Immagino che in quel momento lui si chiedesse chi fossimo, e cosa volessimo da lui, due estranei.

Abbiamo cercato di rispettare il contatto fisico, usavamo i giochi come tramite tra noi e lui. Abbiamo iniziato giocando noi, lo abbiamo coinvolto, finché il gioco ci ha uniti. Abbiamo preso giochi semplici, macchinine carine e molto colorate. Lui è rimasto per qualche ora nel suo mondo, poi si è avvicinato, ci prendeva la mano e, poco alla volta, cercando di parlargli e rassicurarlo, ci siamo avvicinati a lui.

Tenere addosso le scarpe per Jimmy voleva dire sentirsi libero di poter scappare

Mi ricordo anche che i primi giorni non voleva togliere le scarpe, saliva ovunque con le scarpe, e anche se è difficilissimo, tu come genitore lo devi lasciare il più libero possibile. Credo che quelle scarpe gli davano sicurezza: tenerle poteva voler dire che non era una cosa definitiva, se aveva le scarpe magari qualcuno poteva venire a prenderlo per riportarlo da dove era venuto.

Anche nel primo incontro siamo noi genitori a doverli capire, se ci ripensi dopo è una cosa forte quella che provano questi bambini. Noi genitori siamo adulti e siamo in due, ci guardiamo, ci capiamo subito, lui è un bimbo piccolino, che parla una lingua diversa, e per quanto tu cerchi di parlargli in spagnolo, sa che parli un’altra lingua. Sa che siamo degli estranei. Io posso solo immaginare quanto si sia sentito spaesato.

Avete in qualche modo idealizzato il piccolo prima di conoscerlo?

Noi non abbiamo idealizzato molto. L’idealizzazione dipende molto da quanto ti sei messo in discussione nel periodo di pre-adozione, per quanto tu abbia il desiderio di diventare genitore ma non genitore a tutti i costi, nel senso non di quel bambino lì, con quelle caratteristiche per forza.

Sono convinta che sia giusto e normale avere un' idea di figlio nel proprio immaginario, indipendentemente da come arrivi. Anche perché immaginandolo, immagini anche te stesso genitore: te lo immagini in un certo modo, con le caratteristiche tue, del tuo compagno o dei membri della famiglia.

É normale idealizzare il proprio bambino, ma quando si sceglie di adottare bisogna passare dal bambino immaginario a quello reale

Per questo quando si sceglie di adottare è fondamentale il periodo pre-adottivo, perché c’è un passaggio in più, viene messo a fuoco il bambino reale, o meglio il passaggio dal bambino immaginario a quello reale. Serve aver consapevolezza, non si sta diventando solo genitori ma si sta diventando genitori di un bambino che non è nato da noi, di un bambino che ha una storia diversa dalla nostra, con le sue caratteristiche e difficoltà.

Quando parliamo, noi genitori adottivi tendiamo a generalizzare, ci lamentiamo delle tempistiche lunghe: io vado controcorrente e mi sento di dire che servono. Ovviamente sono deleteri tempi troppo lunghi, che ci obbligano a rivalutarci di continuo, perché passano gli anni, la nostra vita cambia. Ma un di tempo di riflessione e consapevolezza è importante che ci sia.

Vi siete subito sentiti i suoi genitori?

Sì, noi ci siamo sentiti genitori da subito, però, anche il sentirsi genitori ha degli step, ovviamente non ho mai avuto figli naturali, quindi non posso sapere in quel caso quali sarebbero stati i passaggi. Certo, noi genitori adottivi abbiamo degli step in più perché nell’adozione abbiamo da costruire quel legame che una mamma naturale costruisce nei 9 mesi di gravidanza.

mamma e bimbo

I passaggi nel nostro caso sono anche fisici. Anche se tu a tuo figlio pensi, forse anni, quando arriva, arriva tra le tue braccia da un momento all’altro, è tuo e tu da quel momento devi prendere consapevolezza che è tuo figlio.

Ti deve piacere quando lo tocchi, devi trovare il giusto contatto, apprezzarne il profumo della pelle, devi creare il contatto, rispettando sempre i tempi dei bambini. Non tutti i bambini arrivano a braccia aperte, pronti per essere abbracciati e baciati, dobbiamo rispettare i loro tempi.

Tu prima hai detto “Noi siamo sempre stati in due”, quali difficoltà avete riscontrato?

Lui all’inizio non ci chiamava per nome, ci diceva “Oh”, noi non abbiamo insistito affinché ci chiamasse per forza mamma e papà. Poi ha iniziato chiamandoci “Michi” e “Paolo”, per poi aggiungere mamma e papà spontaneamente.

Jimmy poi, ha passato tanti anni senza riuscire ad addormentarsi serenamente. Per lui il momento dell’addormentamento era quello più difficile, io l’ho sempre collegato al passaggio che ha fatto nei primi giorni. Per quanto la sua famiglia affidataria e l’equipe che lo seguiva avessero cercato di spiegargli quello a cui sarebbe andato incontro, immagino lui che si è addormentato con loro e si è svegliato da un'altra parte, con i membri dell'equipe, poi ha dormito di nuovo e si è risvegliato tra le mie braccia.

Jimmy ha sempre faticati ad addormentarsi, proprio perché era arrivato da noi, due estranei, mentre dormiva

Mi ricordo che quando era il momento di dormire io mi addormentavo con lui provavo a contare fino a 10, ma nulla lui aveva gli occhi sbarrati, ci metteva più di un’ora ad addormentarsi, nonostante fosse distrutto. Quando provavo a dirgli di stare tranquillo, che la sua mamma era lì, lui mi rispondeva “Sì ma quando mi sveglio tu non sei qui, sei nell’altra stanza”. Probabilmente lui faceva questa associazione, addormentarsi poteva voler dire risvegliarsi da un’altra parte, con nuove persone da conoscere, in un mondo diverso. Se ci pensiamo questa cosa farebbe spavento a qualsiasi adulto, figuriamoci a un bambino.

Come avete raccontato l’adozione a Jimmy?

La narrazione è spontanea e quotidiana e c’è stata da subito. Quando siamo arrivati in Italia gli abbiamo mostrato fin da subito le foto della Colombia. Sicuramente all’inizio non si scava sulle cause dell’abbandono, si cerca di rendere chiaro il passaggio tra un Paese e un altro, una famiglia e un’altra, poi nel quotidiano aggiungiamo informazioni.

Di spunti per raccontare a nostro figlio l'adozione ce ne sono sempre, basta coglierli

Abbiamo creato un libriccino molto semplice, piccolo e colorato dove abbiamo scritto la sua storia, o meglio la nostra e la sua messe insieme. Lo leggevamo ogni tanto, guardavamo le foto, è stato un percorso naturale.

Con i compagni di classe è già uscito il tema dell'adozione?

Lui adesso ha 13 anni, la tematica dell’adozione é stata affrontata quando era all’asilo e la maestra mi ha chiesto se le portassi il libriccino dove avevo raccontato la nostra storia. Alla fine la maestra non se l'è sentita di leggere la sua storia: è riuscita a dirmi che non avrebbe voluto creare la fobia dell'abbandono negli altri bambini.

L'adozione è una favola a lieto fine, che come tutte le favole ha dentro una parte seria e drammatica

Ma questo è un problema proprio sociale, anche perché questa fobia di cui parla non si trasmette ai bambini se si racconta una storia che sicuramente è nata da un abbandono ma poi è diventata una bella storia, una favola a lieto fine, che come tutte le favole ha dentro una parte seria e drammatica.

Adozione a scuola

Se si sfrutta la possibilità di farla conoscere, dando una visione diversa dell’adozione, anche l'aspetto culturale dell'adozione può cambiare. Se la narrazione è sempre quella del povero bambino abbandonato, restiamo a una visione datata a molto più di 50 anni fa, quando il bambino senza genitori non aveva diritti.

L’abbandono è una parte importante della storia dei bambini adottati, che va accolta e rivalorizzata, anche perché è ciò che servirà a lui per superare le sue paure e i suoi dolori.

Lui con voi è mai stato scontroso?

Ha momenti di rabbia che non si sa spiegare, sono emozioni forti che gli vengono da dentro. Alcuni bambini sono violenti fisicamente, reagiscono a tutto con gesti istintivi. Il problema vero è che non si sanno spiegare il loro stato d'animo, non riescono a capirlo, anzi si sentono anche in colpa per le loro reazioni, ed entrano in un circolo vizioso pieno di malessere.

Noi genitori dobbiamo capire che i loro non sono capricci, dobbiamo cogliere noi per primi il loro malessere, senza lasciare che passi tutto in secondo piano. O meglio, dobbiamo lasciare sbollire la situazione in modo che il piccolo si calmi e tranquillizzi e poi riprendere con lui il gesto, cercando di capire, dandogli una spiegazione di quello che potrebbe essere successo, in modo che riesca a lavorare sulla rabbia. Mi ricordo che anche all’asilo quando si arrabbiava molto e aveva dei gesti violenti contro gli altri bambini gli dicevo "Piuttosto prenditela con il peluche o sbatti i piedi".

Cosa significa per te famiglia?

Famiglia siamo noi tre insieme, siamo un team perché in realtà ci siamo adottati tutti e 3. L’adozione non è mai unilaterale. Famiglia sono le esigenze dell’uno e dell’altro, famiglia è darsi supporto, è essere uniti. Per me e il papà significa essere il suo cuscinetto, anche nelle difficoltà.

Dobbiamo essere liberi di dirci quello che proviamo

Quando parliamo della sua storia, nominiamo la sua mamma (della quale per fortuna conosciamo anche il nome) senza gelosie. Nulla è un tabù, dobbiamo essere liberi di dirci cosa proviamo, io punto tanto sulla comunicazione è fondamentale.

I momenti di crisi ci sono, ma tutto sta in come li accetti e come li affronti, senza mettere subito un muro, capendo il perché di una reazione, di una paura, solo così riesci a superarli. Oggi il dialogo è molto più forte, ma a me è capitato a volte di dirgli chiaramente che non sapevo come fare, come intervenire, serve essere sinceri. Famiglia è essere liberi e sinceri, sempre.

Come mai avete scelto proprio un’adozione special needs?

Noi non abbiamo voluto provare ad avere un figlio, consapevoli che avrebbe potuto avere una problematica sanitaria, non perché non l’accettassimo, ma perché sembrava proprio voler avere un figlio a tutti i costi. Questo poi non significava non essere disponibili ad accogliere situazioni difficili: un conto è mettere al mondo un figlio, consapevoli che avrà dei problemi, un conto è pensare di poter aiutare un bambino già nato.

Noi cerchiamo di migliorare le sue condizioni sanitarie quotidianamente, non è sempre semplice, però si prende consapevolezza e si affrontano le cose. Alla fine quando tuo figlio è in difficoltà, per qualsiasi motivo, cosa fai?  Ti rimbocchi le maniche e ti dai da fare. Quello è tuo figlio e tu per lui faresti di tutto, anzi andresti anche dall’altra parte del mondo, facendo qualsiasi cosa per aiutarlo.

Questo è ciò che dico alle coppie che si avvicinano all'adozione quando mi dicono che hanno paura, soprattutto di fare richiesta per un bambino special needs. Io questa paura la capisco benissimo, non è facile ma possiamo farcela. L'obiettivo che deve muoverci è che nostro figlio impari ad essere indipendente, che possa avere tutte le opportunità che merita.

Siete stati in Colombia per 45 giorni, a livello lavorativo come si fa a poter stare via così tanto tempo?

Io avevo preso un congedo, non retribuito se ricordo bene, di 15 giorni e poi avevo avviato la maternità. Mio marito invece ha preso le ferie, ma lui poteva lavorare già allora con lo smart working. Il nostro albergo aveva la connessione e per lui era fattibile. Capisco che per alcune coppie potrebbe essere difficoltoso ritagliarsi tutto questo tempo. Quando decidi di adottare un bambino e ti prepari ad accoglierlo, lui deve essere la priorità.

Quindi per te cos’è stata l’adozione?

Per me l’adozione è stato un percorso meraviglioso, ci sono tante cose importanti da superare, in primis con noi stessi. Siamo noi a dover fare il primo percorso per essere di supporto ai nostri figli. Tutte le fatiche, anche sanitarie, sono rilevanti, ma quando parlo di mio figlio mi accorgo di non sottolineare mai la difficoltà, quanto più la forza e il desiderio, gli aspetti positivi.

Che poi è quello che facciamo tutti. Quando desideri un figlio tantissimo e arriva, quando sai che è tuo, è lì per te, non se ne andrà, allora dimentichi la fatica, l'attesa, le difficoltà e faresti di tutto, anche andare dall’altra parte del mondo, come abbiamo fatto noi.

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Sophia Crotti
Redattrice
Credo nella bontà e nella debolezza, ho imparato a indagare per cogliere sempre la verità. Mi piace il rosa, la musica italiana e ridere di gusto anche se mi commuove tutto. Amo scrivere da quando sono piccola e non ho mai smesso, tra i banchi di Lettere prima e tra quelli di Editoria e Giornalismo, poi. Conservo gelosamente i miei occhi da bambina, che indosso mentre scrivo fiduciosa che un giorno tutte le famiglie avranno gli stessi diritti, perché solo l’amore (e concedersi qualche errore) è l’ingrediente fondamentale per essere dei buoni genitori.
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