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7 Marzo 2023
12:00

«I bambini adottati devono sentirsi liberi di essere arrabbiati»: Elena racconta l’adozione di suo figlio Patrice

Elena e suo marito Alberto sono volati in Burkina Faso per adottare loro figlio Patrice nel 2008. La cosa più importante per loro è cambiare la narrazione dell'adozione: i bambini non sono fortunati, devono sentirsi liberi di essere arrabbiati perché hanno subito l'abbandono.

A cura di Sophia Crotti
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«I bambini adottati devono sentirsi liberi di essere arrabbiati»: Elena racconta l’adozione di suo figlio Patrice
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«Se diciamo ai bambini adottati che sono fortunati, creiamo in loro un senso di colpa immenso. Questi bimbi spesso hanno una rabbia enorme dentro di loro, che non sanno nemmeno spiegarsi. Un bambino che è stato abbandonato dalla sua famiglia di origine e che per trovare una nuova famiglia ha dovuto fare una valigia e andare dall’altra parte del mondo non è un bambino fortunato».

È un concetto importantissimo questo sul quale Elena, mamma adottiva dal 2008, si è concentrata durante l'intervista, mentre suo figlio Patrice, che ha quasi 18 anni ormai, prepara il pranzo e di tanto in tanto si intravede dietro la porta della sala.

Il percorso di Elena e suo marito Alberto è iniziato con la dichiarazione di disponibilità ad adottare un bambino (che da sempre desideravano tantissimo) nel maggio 2004, ed è continuato con un'attesa di 4 anni per poter abbracciare il loro Patrice, nonostante il tribunale gli avesse dato l’idoneità già a dicembre dello stesso anno. Un’attesa difficile perché in 4 anni cambiano tantissime cose, ma supportata costantemente dall'associazione “Il filo di Arianna” alla quale si sono affidati, per conoscere i cavilli di un percorso del quale non si sa nulla, ma per il quale è necessario invece sapere tutto.

L’Africa, terra nella quale sono volati appena l’ente li ha abbinati al loro bambino e dove stati solo 9 giorni, li ha fatti innamorare. Ancora di più il Burkina e la sua legislazione così precisa in ambito di adozioni, che li fa addormentare sereni, convinti che loro fossero l’unica possibilità di amore per il loro bambino.

Patrice è sempre stato un bambino e poi un ragazzo socievole, consapevole della sua condizione di figlio adottivo grazie ai racconti di mamma Elena e papà Alberto. Non sono mancate alcune difficoltà a scuola, tra insegnanti poco preparati a raccontare l'adozione e compagni di classe che hanno fatto domande scomode.

La famiglia ha superato tutto raccontando in maniera precisa e accurata a Patrice ogni cosa, ma Elena ci dice chiaramente che l'adozione andrebbe raccontata a tutti, bimbi, compagni di classe, genitori, insegnanti, così che poi ad aprire le orecchie possa essere la società tutta.

Elena, Alberto e Patrice sono una famiglia come tante, in cui si lotta, ci si comprende e si sbaglia: «Meno male che noi genitori sbagliamo, poverino quel figlio di due genitori perfetti! I genitori che sbagliano sono così rassicuranti!» conclude Elena sorridendo, convinta che superare insieme gli errori commessi, sia la più grande sicurezza del fatto che l'amore che li lega sia più grande di ogni sbaglio.

Elena, perché tu e tuo marito avete deciso di adottare un bambino?

Mi sono sposata nel 2000 quando avevo 30 anni e Alberto, mio marito, 34 anni. Abbiamo iniziato a cercare un bambino in maniera naturale ma non è arrivato. Abbiamo contattato i medici, abbiamo capito dove stava il problema e dopo un anno di tentativi non andati a buon fine, abbiamo deciso di optare per l’adozione. Questi tentativi sono stati utili perché ci hanno permesso di arrivare ad un momento in cui ci siamo resi conto che non stavamo più cercando un figlio in modo fisico, non avevo bisogno di portarlo in grembo o partorirlo per sentirlo mio.

Decidere di adottare è proprio un cambio di approccio alla genitorialità. Può sembrare strano ma è infatti la prima cosa che ti chiedono i servizi sociali. Indagano molto per essere sicuri che tu abbia tentato altre opzioni prima di ricorrere all’adozione. Perché vogliono essere certi del fatto che tu abbia superato il cosiddetto lutto biologico. Sei sicuro di essere in grado di accettare un figlio di altri?

Quando decidi di adottare deve cambiare il tuo approccio alla genitorialità

Un'altra cosa che cambia, rispetto alla genitorialità biologica, è che il percorso adottivo si fa in due. La legge italiana ancora oggi chiede che le coppie per accedere all’adozione siano sposate e conviventi da almeno 3 anni. Ovviamente la società si sta evolvendo e le cose cambieranno, ma secondo me è molto importante che nel percorso si sia in due, serve affrontare insieme certe cose. Ed è la bellezza dell'iter adottivo: entrambi i membri della coppia sono coinvolti dall’inizio alla fine. Se la maternità fisicamente è vissuta in maniera diversa da chi partorisce, rispetto a chi non lo fa, il percorso dell’adozione si percorre tutto in due, ci si dà una mano, si affrontano le stesse cose insieme. Questo crea collaborazione, crea complicità e condivisione di cose che in una gravidanza non si possono condividere.

Cos’è secondo te fondamentale da considerare quando si parla di adozioni?

Noi volevamo essere sicuri che da qualsiasi parte del mondo arrivasse nostro figlio, lui non avesse altra alternativa che venire da noi. Nel mondo dell’adozione internazionale ci sono molte cose poco chiare, quindi io e mio marito nella scelta dell'ente abbiamo voluto affidarci a qualcuno che potesse fare chiarezza sulle condizioni del bambino.

Il Paese da dove arriva mio figlio è il Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri al mondo, dove i gruppi familiari sono molto allargati, per noi era fondamentale che la famiglia di Patrice l’avesse abbandonato perché non poteva tenerlo e che non fosse stata ricattata in alcun modo per abbandonarlo. Volevamo poter dire con certezza a nostro figlio: «Io ti posso dire con certezza che purtroppo per te non c’era altra soluzione».

Essere dichiarati adottabili non è una cosa bella, è normale che questi bimbi siano arrabbiati

So che sembra strano che io insista così tanto sullo stato di abbandono del mio bambino, ma questa è una cosa che deve essere ben chiara a tutti coloro che intraprendono l'iter adottivo: se fosse possibile i nostri figli dovrebbero rimanere con i loro genitori biologici, o almeno dovrebbero poter restare nel loro Paese di origine. Se i bambini arrivano da noi è perché queste due realtà non hanno funzionato, quindi è una cosa brutta, non è una cosa bella. Tanti quando mio figlio era piccolo e camminavamo io e suo papà mano nella mano con lui per strada mi dicevano: «Ma che bella cosa che avete fatto!». Smitizziamolo, non è una bella cosa, noi abbiamo fatto qualcosa perché sentivamo di voler diventare genitori e quindi ci siamo aperti a questa possibilità, ma che un bambino per trovare una coppia di genitori debba andare in adozione internazionale non è una bella cosa, vuol dire che hanno fallito i suoi genitori e che ha fallito il suo Paese di origine.

Questa cosa ci tengo a sottolinearla perché poi spiegare a nostro figlio queste parole non è così semplice, so che le persone non sono sempre cattive e che va sempre tutto contestualizzato. Ma se tutti fossero consapevoli di questo i nostri figli si sentirebbero meno in colpa ad essere arrabbiati, a volte anche con noi.

Come è stato il vostro primo incontro?

Lui era in un istituto a nord della capitale: stava in un'area insieme a bambini non grandissimi ma già grandicelli. Quando siamo arrivati lui stava mangiando con un'altra decina di bambini e con le nutrici un piatto di riso e fagioli. Mi ricordo che mi ha fatto impressione il fatto che si mettesse la mano completamente in bocca per mangiare.

Quando ci ha visti si è alzato in piedi e ha detto «Sono io, Patrice». Li preparano questi bambini, lui sapeva che era arrivato il suo momento di andare, anche perché, ci ha spiegato la direttrice, una settimana prima se n'era andato con un'altra coppia il suo migliore amico.

Patrice mamma e bambino

Quel giorno ci siamo conosciuti, abbiamo giocato, poi ci hanno portato in un’altra area dove c’era la responsabile dell’istituto e lì abbiamo mangiato per la prima volta con nostro figlio. Ci avevano detto di fare attenzione perché questi bambini non hanno idea di quanto cibo o quanta acqua sia giusto assumere. Non saprei nemmeno quantificare, infatti, quanto pane ha mangiato Patrice quel giorno. Poi siamo tornati in albergo e Patrice è rimasto in istituto, perché l’indomani avremmo festeggiato con gli altri bambini la sua partenza.

La festa è stata bellissima, i bambini ballavano e cantavano ma lui, passati i primi 3 minuti, mi si è addormentato in braccio, era proprio stanchissimo. Ciò che stava vivendo era più grande di lui, anche se lo avevano preparato, cosa gli stesse realmente succedendo non poteva capirlo.

Quali sono state le prime difficoltà?

Ce ne sono state tante, fin da piccolo lui urlava e si disperava, è sempre stato un bambino molto fisico. Ma in realtà la difficoltà più grande inizialmente è stata la lingua, perché lui non parlava né francese, né italiano, ma un dialetto della sua zona.

Infatti quando è stato il momento di partire dall’istituto per raggiungere il nostro albergo, ci aspettavano 70 km da fare in macchina. Patrice ha iniziato a piangere e dimenarsi, non capivamo perché, diceva qualcosa nella sua lingua che non comprendevamo, pensavamo soffrisse l'auto.

Siamo arrivati e ho aperto la portiera, Patrice è corso fuori e si è accovacciato per far la pipì. Un bambino di due anni e mezzo se gli scappa la pipì e non può farla, se la fa addosso. Ma lui aveva fatto tutto il viaggio in braccio a me, non voleva sporcarmi e ha aspettato di arrivare. Abbiamo capito che dietro c’era qualcuno che lo aveva preparato a non fare certe cose, pur di non essere abbandonato di nuovo.

A questi bambini danno delle regole che permettono loro di sopravvivere negli istituti, ma vanno abbattute e ricostruite insieme. Un bambino che non ha mai avuto delle regole su misura per lui, è un bambino che non può dire di essersi mai sentito amato.

Nella crescita invece, cosa è stato più difficile?

La cosa più difficile nei primi mesi è stata entrare in sintonia l’uno con l’altro. Io quando ho visto Patrice me ne sono innamorata, ma ho dovuto elaborare il tutto, mi sono svegliata una mattina che non avevo un figlio e quella dopo che ne avevo uno di quasi tre anni tra le braccia. Poi so che c’è gente che racconta che è tutto perfetto, per me l’innamoramento, come ho detto, c’è stato subito, ma ho vissuto con difficoltà la costruzione del rapporto con mio figlio.

Patrice

Avevo davanti uno sconosciuto, come lui aveva davanti due sconosciuti. Sebbene fossi stata preparata, ho dovuto lavorare molto su questo e accettare il tempo che ci voleva. Abbiamo percepito l’adozione forse un anno dopo rispetto a quando Patrice è arrivato in casa da noi, anche perché alcune cose che ti insegnano magari non sono adatte al tuo bambino, che ha un suo vissuto. É stata una costruzione che è avvenuta col tempo.

È difficile anche educare un bambino adottato, perché l’educazione che gli spetta va un po’ al contrario. Patrice doveva sentirsi libero di insultare, gridare, fare capricci, tutte quelle cose che nella prima parte della sua vita non gli erano state permesse.

È stato ed è un lavoro complesso che richiede tempo e abbiamo cercato di fare commettendo meno errori possibili, ma ovviamente spesso abbiamo sbagliato, come tutti i genitori. Meno male che noi genitori sbagliamo e sono proprio questi errori a renderci più rassicuranti e rasserenanti agli occhi dei nostri figli.

Come avete raccontato l’adozione a vostro figlio?

Noi abbiamo raccontato tutto da subito, è venuto naturale, anche perché noi e il nostro bimbo abbiamo la pelle di un colore diverso, le provenienze diverse erano evidenti. In generale per legge va raccontata la verità al bimbo, ma sta al genitore scegliere tempi e modi.

Secondo me parlarne è importantissimo, non tanto per lui quanto più per noi genitori. Infatti, mi ricordo che eravamo tornati da una settimana dal Burkina quando mi ha chiamato la psicologa, la stessa che ci aveva seguito tramite l’ente. Mi ha chiesto immediatamente se avessi iniziato già a raccontare la sua storia a Patrice e mi ha spiegato come fare.

Il racconto non doveva partire da noi che non riuscivamo ad avere un figlio, ma doveva partire da lui

Grazie a lei ho iniziato a cambiare visione, il racconto non doveva partire da noi che non riuscivamo ad avere un figlio, ma doveva partire da lui. Ci ha anche aiutati a usare le parole semplici. A questo punto la narrazione è iniziata, una volta, due, tre, l'abbiamo ripetuta tantissime volte, finché Patrice la sapeva a memoria.

Tutti noi genitori adottivi ci chiediamo quanto dobbiamo raccontare ai nostri figli, perché abbiamo il timore di creare nei bambini dei dolori che non avrebbero. L’importante è iniziare subito così ci abitueremo tutti al racconto, al quale a poco a poco si aggiungeranno i dettagli che il piccolo può comprendere. Anche perché tenere nascosto qualcosa a tuo figlio è molto più doloroso, perché tutto quello che i genitori non riescono a raccontare al bimbo per lui si tramuta in qualcosa di enorme “Se è così grande che nemmeno i miei genitori lo dicono, allora quanto grande è?”. Più raccontiamo,  più l’adozione diventa qualcosa di normale per noi, per lui e per la società tutta.

La scuola invece come si è approcciata all'adozione?

Esistono delle linea guida specifiche per le scuole, non sono un obbligo però, quindi non vengono seguite alla lettera, gli insegnanti dovrebbero evitare certi argomenti e raccontarne altri, ma non lo fanno.

Noi abbiamo scelto un asilo nel quale pensavamo sarebbe stato stato più protetto, abbiamo parlato con la direttrice e gli insegnanti, ma nonostante questo c’è stato un momento difficile. Una maestra ha chiesto ai bambini di portare a scuola la prima foto che i genitori avessero di loro, quasi tutti hanno portato l’ecografia, qualcuno una foto in cui era in fasce abbracciato ai suoi genitori. Mio figlio non poteva, perché noi la prima ecografia non l’avevamo, nella sua prima foto insieme lui aveva già a 2 anni e mezzo, e lui si è chiesto perché. Non è stato un momento drammatico per lui, ma si è accorto della differenza, poi noi siamo andati a parlare con la sua maestra e lei ha capito di aver gestito male la cosa.

Adozione scuola

In realtà queste cose sono molto difficili da gestire, lui è arrivato a maggio e ha iniziato l’asilo a settembre, su consiglio della psicologa, perché aveva bisogno anche di stare lontano da noi, alla fine era passato da una situazione di caos a una situazione in cui due persone stavano con lui 24 ore su 24 e aveva bisogno di normalità.

Dopo 3 settimane arriva a casa dall’asilo, mentre io stavo cucinando si avvicina e da dietro mi chiede: «Mamma, ma tu sei morta?». Io sono rimasta impietrita, poi gli ho chiesto se qualcuno a scuola gli avesse chiesto se la sua mamma fosse morta. In realtà mio figlio aveva ascoltato due bambine che parlavano di questa storia. La verità è che dell’adozione non basta parlare con le maestre, andrebbe affrontata anche con tutti i genitori della classe. Probabilmente questa bambina aveva chiesto a casa come mai Patrice fosse di un colore di pelle diverso dal mio e i suoi genitori le devono aver risposto che era perché la sua mamma era morta.

La scuola non considera l’adozione qualcosa di normale e continua a non affrontare il problema finché non ci sbatte la testa.

Cosa significa per te famiglia?

Famiglia è un insieme di relazioni, è come si cambia e come ci si cambia, è una lotta continua, è essere in grado di ascoltarsi, di capire cosa c’è dall’altra parte. Con l’adozione in particolare, serve avere le orecchie tese e far finta di non averle, serve essere attenti e sapersi capire, modulare racconto e silenzi. In una parola, amarsi.

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Sophia Crotti
Redattrice
Credo nella bontà e nella debolezza, ho imparato a indagare per cogliere sempre la verità. Mi piace il rosa, la musica italiana e ridere di gusto anche se mi commuove tutto. Amo scrivere da quando sono piccola e non ho mai smesso, tra i banchi di Lettere prima e tra quelli di Editoria e Giornalismo, poi. Conservo gelosamente i miei occhi da bambina, che indosso mentre scrivo fiduciosa che un giorno tutte le famiglie avranno gli stessi diritti, perché solo l’amore (e concedersi qualche errore) è l’ingrediente fondamentale per essere dei buoni genitori.
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